La recente entrata in vigore della Legge Gelli-Bianco (8 marzo 2017, n. 24, “Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”) impone una seria riflessione sul profilo generale di responsabilità per i commercialisti.
Senza entrare nel dettaglio di questa recentissima norma, occorre tuttavia spiegare la
ratio che ha indotto il Legislatore ad emanarla: il profilo di responsabilità dei professionisti sanitari aveva raggiunto limiti così elevati da aver generato un mostro, la cosiddetta “medicina difensiva”, cioè un insieme di prassi, spesso costose, dolorose e ridondanti, finalizzate a tutelare, più che il paziente, il professionista da cause legali, sia in sede civile che in sede penale. La Legge dunque, seppur con i suoi limiti, cerca di ridefinire con maggiore precisione dette responsabilità, al fine di generare minore incertezza tra gli attori del sistema.
Ed infatti ad un professionista serio, a qualunque Ordine appartenga, occorre poter operare nel pieno delle proprie facoltà e capacità intellettuali senza necessariamente dissipare tempo ed energie, che andrebbero indirizzate nell’interesse del cliente e della collettività, in attività difensive del proprio operato.
È necessario insomma che un professionista onesto e tecnicamente preparato (e con questo si escluda sin da principio chi opera senza etica, adeguata preparazione o scrupoli professionali, in una parola irresponsabilmente) sia libero dalla paura.
Il presidente degli Stati Uniti d’America Theodore Roosvelt formulò, nel lontano 1941, le quattro fondamentali libertà dell’individuo: libertà di parola e di espressione, libertà di culto, libertà dal bisogno (sicurezza sociale) e libertà dalla paura.
Questo principio vale ancora oggi, trovandosi ogni cittadino, e quindi anche ogni professionista, a navigare in un contesto di profonde insicurezze, giuridiche e materiali, sul futuro proprio e del contesto, familiare, sociale ed economico, in cui opera.
Noi tutti sappiamo che, con riguardo ai diversi profili di responsabilità dei commercialisti, ogni professionista può incorrere, in sede civile o amministrativa, in sanzioni dirette od in azioni di responsabilità portanti richieste, talvolta esose, in termini di risarcimenti di asseriti danni.
Senza voler eludere la responsabilità per colpa di un commercialista che abbia commesso gravi errori od omissioni, pacificamente accertate, nell’esercizio delle proprie funzioni, appare ormai di tutta evidenza la nouvelle vague delle azioni di responsabilità intentate a consulenti e ad organi di controllo (collegi sindacali, revisori), che ha visto un’impennata esponenziale nell’ultimo decennio, stante anche a quanto risulta dai sinistri denunciati alle compagnie di assicurazioni.
Un’impennata che porta con sé una domanda: se la statistica è corretta, o i professionisti sono diventati, spessissimo, ampiamente negligenti, o anteriormente si operava in un sostanziale sistema di “misericordia” (ipotesi inverosimile), oppure ancora le condizioni del sistema economico hanno indotto alcuni attori a gettarsi a capofitto in tentativi di recupero di crediti presunti, finalizzati principalmente a fare cassa.
Una vera anomalia, in specie nell’alveo delle procedure concorsuali, che si accompagna alla restrizione legislativa intervenuta in merito all’esercizio dell’azione revocatoria fallimentare, rilevata dallo stesso Organismo Unitario dell’Avvocatura (quindi non sicuramente da parte di un organismo di parte dei commercialisti) che afferma, con nota pubblicata su Il Sole 24 Ore di pochi mesi fa, “l’azione di responsabilità diventa “prassi” “ e, ancora, “occorre segnalare che negli ultimi tempi tali azioni sembrano aver assunto una sorta di automatismo non più finalizzato a colpire amministratori e sindaci realmente colpevoli di responsabilità nella gestione o nel controllo dell’impresa, ma ad apportare somme all’attivo fallimentare”, con lunghe e costose vicende legali, spesso a spese della massa e con imponenti rischi di azioni riconvenzionali a complicare un quadro già di per sé complesso.
L’intento di recuperare attivo, ad esempio a favore di una massa fallimentare, ma non solamente, non dovrebbe, in uno stato di diritto, essere il principio guida di un’azione legale; l’applicazione di un pacifico e corretto postulato giuridico, a prescindere dall’esistenza di polizze di assicurazione (ormai rese obbligatorie) in capo ai professionisti, dovrebbe essere la direttrice di ogni azione.
Su di un interessante articolo pubblicato su Il Commercialista Veneto non molto tempo si è trattato dei rapporti tra colleghi che possano confliggere proprio in relazione alle azioni di responsabilità di cui sopra; qui si cita la presa di posizione da parte dell’Ordine di Firenze con la circolare informativa n. 39/01 del 12/10/2001, ribadita con circolare informativa n. 14/12 del 07/05/2012, avente ad oggetto “
Procedura in ordine ad azioni di responsabilità contro colleghi” in cui si raccomanda, anche a livello deontologico (e si rammenti qui il recente Codice Deontologico della Professione entrato in vigore il 1° marzo 2016), una cautela giuridica nel trattare la delicata questione.
Occorre sottolineare come in Germania, Austria, Belgio e Slovenia, nazioni non certo lassiste nell’applicazione del diritto, la responsabilità, ad esempio, dei revisori sia limitata con l’introduzione di un tetto massimo di responsabilità
(i.e. liability cap), mentre in Gran Bretagna ed in Ungheria la responsabilità segue comunque un principio di proporzionalità; del resto sin dal lontano 5 giugno 2008 la Commissione Europea emanò una Raccomandazione in merito alla limitazione della responsabilità civile. Ed il diritto comunitario ancora viene in soccorso di un adeguato e giuridicamente sostenibile contenzioso basato sulla presunta responsabilità di ogni cittadino, quindi anche di ogni professionista, imponendo il sacrosanto principio scolpito nell’articolo 41, comma 2, lettera a, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea che sancisce “il diritto di ogni persona di essere ascoltata prima che nei suoi confronti venga adottato un provvedimento individuale che le rechi pregiudizio”.
Ecco che allora apparirebbe di buon senso e giuridicamente sostenibile fissare con determinatezza e ad ogni livello, dottrinale, giurisprudenziale ed infine legislativo, un limite alla responsabilità professionale dei commercialisti nell’esercizio delle loro funzioni, non certo per deresponsabilizzarli, ma per poter offrire finalmente una certezza del diritto oggi sovente utopica, certezza del diritto che avvantaggerebbe non solo i professionisti, ma anche le compagnie di assicurazione e, in ultima analisi, gli stessi attori, che vedrebbero tempistiche, costi ed esiti delle azioni divenire maggiormente certi.
Non si può infine tacere delle sanzioni dirette (ad esempio quelle operate da organismi quali Consob o Banca d’Italia, ma non solo), ovviamente non assicurabili al fine di mantenere il requisito dell’afflittività, ma che certamente non inducono maggiore diligenza nei soggetti vigilati e spesso violano palesemente il principio di proporzionalità; siamo consci infatti che, a lungo andare, a nulla gioverebbe trovarsi di fronte ad una platea di professionisti nullatenenti e demotivati (rischiando così che “la moneta cattiva scacci quella buona”), spogliatisi di tutto al fine di evitare di essere trattati alla stregua di soci a responsabilità illimitata delle società e dei clienti per cui operano a livello professionale.
*Presidente dell’ODCEC di Biella, coordinatore degli ODCEC di Piemonte e Valle d’Aosta, componente del consiglio direttivo della Scuola di Alta Formazione degli ODCEC di Piemonte e Valle d’Aosta e direttore de Il Commerci@lista e de L’Avvoc@to