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Il comandamento di non negare

"La voce narrante della mia vita è morta. Ieri colei che sapeva leggere il mio cuore è andata via. Il Covid si è preso il mio mondo, l'amore assoluto della mia vita. Nelle sue mani ero traslucente: ancora prima di dire lei vedeva, sapeva. Mamma mia, caro amore, se solo avessi saputo che stavamo facendo tutto per l'ultima volta ti avrei detto, ancora, ti amo".

Sono queste le bellissime parole con cui Moira ha scritto sul suo social l’ultimo saluto alla sua mamma. E avrebbe potuto trattarsi, tutto sommato, d’un addio perso tra i molti affidati allo stesso canale trasmissivo da quanti, in questo tempo, sono parimenti rimasti orfani, vedovi o comunque privati d’un affetto per cui la nostra lingua così ricca e forbita non ha coniato termini adatti ad etichettarli.

Eppure quello di Moira ha fatto breccia, non solo perché espresso in maniera estremamente toccante, sull’onda d’un dolore che, si sa, per quanto possa essere comune per cause è poi profondamente diverso, intimamente, vissuto in maniera singolare e specifica da ogni persona. L’aveva espresso Tolstoj questo pensiero, con parole mirabili ed efficaci, nello straordinario incipit della sua “Anna Karenina”, sentenziando, lapidariamente: “Tutte le famiglie felici si somigliano; ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”, dov’è proprio nella contrapposizione tra quel “tutti” e quell’”ogni” che è riposta la sostanziale differenza di sentire dell’umano dolore.

Il saluto di Moira è risaltato perché accompagnato da una potente e disarmante denuncia, diretta ai tanti che tuttora, in questa nuova parentesi di devastazione dovuta ad un virus che non perdona, mantengono un ingiustificabile scetticismo.

“Ai miei piedi ciò che mi restituiscono di mia madre...
Non posso nemmeno buttarmi a capofitto su quegli abiti per sentire ancora una volta il suo odore, sono infetti...
Per chi nega, per chi specula, per chi non ha protetto: che possiate sentire anche voi il rumore del cuore in frantumi.

L’atto di dolore di Moira si è così trasformato in un durissimo atto d’accusa, un nuovo comandamento con la conseguente condanna rivolta nei confronti di chi, a fronte della nuova conta dei morti, delle bare allineate e dei crematori saturi, continua a negare la gravità – se non addirittura la stessa esistenza – del virus.

La foto cui quella frase fa da didascalia – un piccolo sacchetto di plastica rossa abbandonato sul pavimento - restituisce il senso della nostra pochezza, la spaventosa presa di coscienza di come la morte riduca ognuno soltanto ad un mucchietto di “cose” senz’anima, qualora nemmeno ci sia la memoria perpetuata da chi resta a mantenere vivo l’esser stato.

La morte per Covid è ancora peggio, perché aggiunge a quella dolorosa minimizzazione l’amara beffa della distanza: quella spicciola, di poter toccare ancora una volta o annusare – come dice Moira - ciò che è appartenuto ai nostri cari ma, ancor più, quella affettiva, imposta da un rigido protocollo che impedisce persino un ultimo abbraccio, un decoroso saluto, un funerale.

Allora, si, è comprensibile quel duro anatema che il dolore di Moira non le ha fatto scrupolo di pronunciare e che in tanti hanno ripreso e rilanciato.

Ed è giusto essere dalla parte di chi, pur senza averne fatto le spese con la perdita d’un affetto, non ha mai negato ed ha perciò condiviso la consapevolezza d’un dramma reale, incombente, ancora implacabile.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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