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L’anniversario

Autore: Ester Annetta
Quando, a febbraio di un anno fa, viene ricoverato a Codogno “il paziente uno” (che solo molto tempo più tardi si sarebbe scoperto non essere affatto il primo) nessuno può ancora avere sentore di quanto stia per accadere.

C’è ancora chi sostiene che l’Italia non sia in pericolo, che quel terribile virus che in Cina ha già mietuto migliaia di vittime non può attecchire oltre quelle terre, che non c’è ragione d’allarmarsi.

Bastano però pochi giorni e la preoccupazione comincia ad aumentare man mano che diventa sempre più consistente la percezione che quel temuto contagio abbia invece varcato confini che fino ad allora altri virus non erano riusciti a superare.

È il 23 febbraio quando, il primo di una lunga serie di DPCM – acronimo con cui da quel momento in poi, tutta la popolazione italiana avrebbe imparato a familiarizzare – dispone la chiusura di undici comuni del Nord Italia, nel Lodigiano, considerati focolai dell’infezione, ordinando la quarantena di oltre 50mila persone.

Per la prima volta, riferendocisi a quei comuni, si parla di “zona rossa”, ignari, tuttavia, che quella tinta -notoriamente associata al pericolo – diventerà anch’essa una costante che, ancora molto più tardi, continuerà a dominare e a tingere altre zone, sconvolgendo in maniera che parrà ben presto irreversibile ogni consolidata abitudine.

L’epidemia intanto avanza, con gli ospedali lombardi già prossimi al collasso e i decessi in crescita esponenziale. Il 1° marzo, un nuovo DPCM allarga perciò ulteriormente la “zona rossa”, disponendo altresì che, al suo interno, siano chiuse scuole e Università, sia vietato il pubblico negli eventi sportivi e siano fornite le prime indicazioni per favorire il lavoro da remoto; vengono anche sospese le attività di palestre, centri sportivi, piscine, centri benessere e termali.

Appena tre giorni dopo diventa tuttavia chiaro che il quadro sta assumendo contorni drammatici e che l’epidemia è ormai fuori controllo; così, il 4 marzo, un nuovo DPCM dispone la chiusura delle scuole, delle università e degli stadi su tutto il territorio nazionale nonché il divieto di visite ai parenti negli ospedali e nelle carceri.

È la notte tra il 7 e l'8 marzo quando cominciano a trapelare sul web anticipazioni su un imminente nuovo DPCM che pare delinei i contorni di una chiusura totale, di un “lockdown”, espressione che evoca chiaramente l’idea di isolamento, di confinamento. Molti lavoratori e studenti originari del sud Italia che si trovano al Nord, raccolgono in fretta le loro cose e, quasi fossero esuli una seconda volta, si precipitano nelle stazioni per salire sul primo treno che possa riportarli nelle regioni native, nel timore che la quarantena trasformi in prigioni i luoghi che li hanno accolti per ragioni di studio o di lavoro.

Molti non sanno di portare con sé anche quell’ospite sgradito e diventano così veicoli del virus, che da quel momento rischierà di allargare i contagi anche nel meridione d’Italia, dove fino al allora erano rimasti contenuti.

Come preannunciato, il 9 marzo arriva il DPCM con cui le restrizioni si estendono a tutto il territorio nazionale. L’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, quella stessa sera, parla alla Nazione, pronunciando quel discorso – destinato a diventare memorabile -che avrebbe cambiato di colpo le abitudini degli italiani: “Le nostre abitudini vanno cambiate ora. Dobbiamo rinunciare tutti a qualcosa per il bene dell'Italia, e lo dobbiamo fare subito, e ci riusciremo solo se tutti collaboreremo e ci adatteremo a queste norme più stringenti. Adotteremo misure più forti per contenere il più possibile l'avanzata del coronavirus e per tutelare la salute di tutti i cittadini. (….) Sto per firmare un provvedimento che potrei definire “io resto a casa”. Non ci saranno più "zona rossa" o "zona 1 e zone 2", ci sarà solo l'Italia zona protetta (…) Oggi è il giorno della responsabilità, noi tutti, e voi cittadini con me, abbiamo una grande responsabilità. Oggi la decisione giusta è restare a casa, abbiamo il futuro nelle nostre mani e devono essere mani responsabili”.

Manca solo un ultimo passaggio, che pone il suggello definitivo ad un problema che, ormai con ogni evidenza, non è più solo di singoli territori o Stati o continenti, ma interessa il pianeta intero: è l’11 marzo quando l’OMS, dopo aver valutato i livelli di gravità e la diffusione globale dell’infezione, dichiara che l’epidemia di COVID-19 è una pandemia.

Il mondo intero, dunque, è attentato da quella nuova, sconosciuta, terribile minaccia, costretto nel suo abbraccio di morte.

Pandemia non è una parola da usare con leggerezza o negligenza. È una parola che, se usata in modo improprio, può causare una paura irragionevole o un'accettazione ingiustificata che la lotta sia finita, portando a sofferenze e morte inutili” - dice il Direttore Generale dell’OMS nel suo discorso – e, aggiungendo che “tutti i paesi devono trovare un sottile equilibrio tra la protezione della salute, la riduzione al minimo delle perturbazioni economiche e sociali e il rispetto dei diritti umani”, declina i comandamenti necessari a poter fronteggiare quell’inatteso pericolo: “Trova, isola, testa e tratta ogni caso e traccia ogni contatto; Prepara i tuoi ospedali; Proteggi e forma i tuoi operatori sanitari. E guardiamoci tutti l'uno per l'altro, perché abbiamo bisogno l'uno dell'altro.”

Quella stessa sera Conte parla ancora una volta, annunciando che è “il momento di compiere un passo in più, quello più importante”. Dispone così la chiusura di tutte le attività commerciali - ad eccezione dei negozi di generi alimentari, di prima necessità, delle farmacie e delle parafarmacie; chiude i reparti aziendali ritenuti “non indispensabili” per la produzione; nomina Arcuri commissario delegato a potenziare la risposta delle strutture ospedaliere all’emergenza sanitaria. E conclude il suo discorso chiosando “Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore, per correre più veloci domani. Tutti insieme ce la faremo”.

E fu sera e fu mattina.

Nell’arco di una notte l’Italia si spegne.

Ogni suono, ogni gesto di vita, lascia posto ad un silenzio che sembra quello primordiale narrato nella Genesi, quel vuoto che precede il “prima che tutto sia”.

Dalla più grande alla più piccola, le città diventano deserte, apparendo così nell’intera loro bellezza, quella che il traffico e la fretta non consentono mai di contemplare e che pure adesso rimane inafferrabile, celata agli sguardi di chi ha solo le quattro mura della sua casa o l’orizzonte finito dirimpetto al proprio balcone da poter ammirare.

Il solo suono che infrange il silenzio è quello delle sirene delle ambulanze, che nemmeno avrebbero motivo d’essere azionate, dal momento che non c’è il traffico da fendere per accelerare la corsa; perciò, più che mai, quel suono assume il significato di un triste presagio.

Ritratto nel bozzolo della propria casa, ognuno sembra tornare a quell’utero materno in cui, protetto e sicuro, attende il termine d’una gestazione che lo renderà alla luce, come se davvero dovesse rinascesse ad una vita che ora si sta ri-plasmando, avvolta nel liquido amniotico della solitudine e della distanza, che paiono le uniche premure di quella nient’affatto dolce attesa.

La capacità d’adattamento che ha consentito al genere umano d’evolversi e sopravvivere fa ancora una volta la sua parte: si apprendono nuove pratiche che diventano presto routine – igienizzarsi, fare il pane, tenere diari – e si inventano nuove forme di socialità che possano palliare la distanza fisica. Anche chi per motivi generazionali non ha mai avuto troppa dimestichezza con la tecnologia, ne impara presto l’uso, dovendo per necessità ripiegarvi ove si tratti del solo strumento che gli consenta di comunicare o di lavorare. E chi, invece, dietro la virtualità delle relazioni si è sempre schermato, comprende ora l’importanza della fisicità, d’una realtà fatta di tatto, vista e ascolto non mediati.

In questa cattività, in questa forzata prigionia, fioriscono sentimenti di solidarietà: la paura e la sofferenza condivisa avvicinano; cantata dai balconi, dipinta sull’arco d’un arcobaleno il bisogno d’unità e di conforto reciproco pare operare il miracolo del rabbonimento.

“Ne usciremo migliori”. Un po’ è una promessa, un po’ è una convinzione che, insieme all’”andrà tutto bene!” sventolato alle finestre, diventa il credo che sostiene il susseguirsi di giorni sempre uguali, dove l’attesa comune è quella del bollettino delle 17.00 - in cui il pallottoliere dei contagi e dei decessi annuncia i suoi numeri - e dell’oracolo dei virologi, divenuti improvvisamente figure mitologiche dalle cui parole dipende l’altalena quotidiana dei sentimenti.

Un anno fa in quei mantra continuamente ripetuti volevamo crederci ad ogni costo; ci davano forza, ci davano coraggio. Che si assegnasse la causa di quell’incubo ad una punizione divina o ad una rivolta della natura, che si fosse complottisti o negazionisti, tutti, comunque, aspettavamo che finisse e che ne uscissimo nel migliore dei modi.

Ma poi è arrivata la resa dei conti, quella che allora non era preventivabile, forse perché, ingenuamente, davvero ci si era illusi che nel giro di pochi mesi quei numeri sarebbero diminuiti e –nell’attesa di un vaccino che avrebbe potuto definitivamente allontanare il timore di un nuovo agguato del virus - ci sarebbe stato il ritorno alla normalità.

Storicamente è sempre seguita una carestia ad ogni epidemia. Ma siamo ormai troppo evoluti – abbiamo pensato – perché questo possa accadere ancora oggi.

Vero.
Ma un seguito, una conseguenza, non poteva non esserci.

E, allora, i numeri che si è cominciato a contare sono diventati altri: quelli dei posti di lavoro perduti, delle saracinesche che non si sono più rialzate, di coloro che a qualunque età e con qualunque mezzo si sono dovuti reinventare, dei pacchi di generi di prima necessità distribuiti a chi all’improvviso si è ritrovato a non poterne più comprare, di “ristori” inadeguati, degli indignati che avevano sperato in una solidarietà che non fosse solo quella del vicino di casa, ma che si facesse sentire con consistenza ed efficacia anche nei luoghi di potere.

Un anno fa non lo sapevamo che i politici cui la pandemia pareva aver donato il dono dell’unità d’azione sarebbero tornati ad affilare i coltelli, che avremmo dovuto fare i conti persino con una crisi di governo e che, come nelle tragedie greche, saremmo finiti a guardare ad un nuovo premier come ad un deus ex machina.
Non lo sapevamo che saremmo finiti ad assistere a polemiche su banchi a rotelle e traffici di mascherine né che il virus sarebbe stato il coperchio infranto d’un vaso di Pandora che avrebbe finalmente messo in luce ritardi, inefficienze, mancanze datate.
Non lo sapevamo che la speranza e la fiducia non sarebbero state durature e che dal dominio della paura saremmo passati a quello della rabbia.

Un anno fa si temeva di morire; un anno dopo si ha paura di vivere in una realtà drammaticamente in rovina, dove tutto è andato in malora e siamo diventati tutti più cattivi.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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