L’eco di quella che, bonariamente, si è voluta far passare per una gaffe di una scuola romana si è spento da poco; ma è stato un silenzio che non è durato a lungo, perché quella vergognosa vicenda ha aperto il varco al palesarsi di altre realtà non molto dissimili.
Come si ricorderà, con un rapido intervento di pulizia, l’Istituto comprensivo Via Trionfale di Roma aveva prontamente rimosso dal proprio sito - a seguito dello scalpore che aveva suscitato - la minuziosa descrizione del plesso scolastico, che, nel fornire specifiche sulle caratteristiche della sua utenza, descriveva una realtà classista molto ben dettagliata: “La sede di via Trionfale e il plesso di via Taverna accolgono alunni appartenenti a famiglie del ceto medio-alto, mentre il Plesso di via Assarotti, situato nel cuore del quartiere popolare di Monte Mario, accoglie alunni di estrazione sociale medio-bassa e conta, tra gli iscritti, il maggior numero di alunni con cittadinanza non italiana; il plesso di via Vallombrosa, sulla via Cortina d’Ampezzo, accoglie, invece, prevalentemente alunni appartenenti a famiglie dell’alta borghesia assieme ai figli dei lavoratori dipendenti occupati presso queste famiglie (colf, badanti, autisti, e simili)”.
Tanto l’Associazione Presidi che il Ministro Azzolina erano allora intervenuti rivendicando, l’una, la funzione della scuola come luogo di educazione e di inclusione e chiedendo, l’altra, spiegazioni relative all’adozione di quella differenziazione così in stridente contrasto con l’inclusività che la scuola dovrebbe, viceversa, favorire.
Ovviamente l’Istituto si era difeso dichiarando che quanto scritto sul proprio sito istituzionale non avesse nulla a che fare con discriminazioni di classe, ma riportasse semplicemente una mera descrizione del contesto socio-economico in cui la scuola è calata.
Pochi giorni fa una vicenda analoga si è riproposta, benché stavolta a parti invertite: non è stata difatti la scuola a macchiarsi di discrimine ma la sua stessa utenza.
Il preside di una scuola dell’hinterland napoletano – l’Istituto comprensivo Giacomo Leopardi di Sant' Antimo - ha difatti pubblicato sull’area del sito della scuola dedicata alle comunicazioni agli iscritti ed alle famiglie un post che recita così: “Da quando sono arrivato nella nuova scuola, ho spesso la sensazione di essere in Sudafrica. Prima qualche genitore, poi addirittura qualche docente che viene ad esprimere la necessità di formare classi scelte sulla base del censo, per proteggere i figli dei professionisti dal mondo là fuori, fatto anche di figli di operai. Io li ascolto tutti, con educazione ed attenzione, notando pattern ricorrenti nel loro linguaggio. “Abbiamo paura che i nostri figli prendino cattive abitudini” dice uno; “Vogliamo che i nostri figli seguino le nostre orme” dice un altro. Ascolto, ascolto e mi rendo conto che il limite della mia pazienza coincide con i limiti dell’uso del congiuntivo dei miei saccenti e classisti interlocutori”.
Una sciabolata. Ben più incisiva, a ben vedere, di quella che ha fatto emergere la realtà classista della scuola romana.
Qui, infatti, il dramma che si evidenzia è duplice, poiché, accanto all’assurdità della richiesta di genitori che rivendicano alla scuola la necessità che le classi siano divise per censo, vi è la chiara dimostrazione che il “ceto sociale” che intendono preservare annega in carenze culturali tali da farlo apparire non meno deprivato dei contesti che sostengono essere malsani per i propri figli.
Purtroppo non si tratta di casi isolati. E’ una verità fondata che i genitori tendano a scegliere le scuole per i propri figli basandosi sulle caratteristiche dell’utenza che le frequenta; così com’è altrettanto vero che nelle scuole tendano sempre ad esserci sezioni più ricercate, composte da eccellenze, e sezioni di scarto.
E’ amaramente vero, altresì, che l’ideale di una scuola democratica ed inclusiva come tracciata e voluta dalla Costituzione è ormai diventato un’utopia.
Le disuguaglianze sociali e strutturali della nostra società persistono e, anzi, con gli anni si sono acuite tanto da riproporre anche nelle scuole una realtà sbilanciata in cui si riflettono le disparità, le diffidenze, le ingiustizie e perfino le prepotenze del contesto esterno.
Sempre che non si scelgano scuole private i cui costi possono essere evidentemente sostenuti unicamente da famiglie abbienti - e, dunque, la selezione del ceto è presupposto d’accesso - nelle suole pubbliche continuano a riproporsi “modelli calcistici” in cui l’appartenenza ad una serie A, B o C fa la differenza.
E, ciò che è peggio, è che pare essersi smorzata anche l’ambizione dei giovani delle nuove generazioni: in un quadro politico e sociale che non fornisce affatto sicure garanzie per l’avvenire professionale, sono tantissimi i ragazzi che si “rassegnano” quasi ad intraprendere percorsi di studio di lega minore, più in linea con il baso profilo delle loro famiglie d’appartenenza, nella convinzione che i posti privilegiati nella società spettino di diritto a chi abbia alle spalle famiglie di maggior levatura sociale, a confronto delle quali le speranze di poter scalare certe gerarchie sociali si profila come una lotta impari.
A ciò si aggiunga che, dal canto suo, anche la scuola ha finito per commettere l’errore di assecondare la tendenza alla concorrenza, finendo in una sorta di “mercato” in cui la sfida per accaparrarsi più clienti-studenti poggia, a seconda del tipo di domanda, alternativamente sulla quantità o sulla qualità della propria offerta.
La scuola dei ricchi e dei poveri è, allora, una amara e triste realtà che la réclame dell’Istituto Trionfale e le pretese dei genitori dell’Istituto Leopardi hanno avuto il “merito” di scoperchiare e che non è affatto estranea a tante altre scuole, sia al nord che al sud, nelle grandi città e nelle province.
Se, dunque, la scuola non è altro che lo specchio di una realtà altrettanto divisa e non democratica, nulla potrà sperarsi che cambi se il modello riflesso non viene a sua volta mutato.
Nel frattempo, un buon ripasso del congiuntivo è d’obbligo.