Alle 19.00 del 16 maggio 1944, le SS, armate di mitragliatori, circondarono lo Zigeunerlager - il campo per famiglie rom e sinti di Auschwitz-Birkenau – per eseguire l’ordine di eliminarle. Preventivamente avvisati, i prigionieri armati di vanghe, leve di ferro e pietre, opposero resistenza, rifiutandosi di sgomberare gli alloggi.
Sorpresi da una tale audace resistenza, i militari si ritirarono e, per quel giorno, nessuno morì nelle camere a gas.
La vendetta ci fu pochi mesi dopo, la notte del 2 agosto, quando le SS entrarono nel campo, aprirono le baracche e giustiziarono 4000 individui, in maggioranza donne e bambini.
Fu l’atto finale del Porrajmos – ‘il divoramento’, in lingua romanì – che provocò mezzo milione di vittime Rom e Sinti, uccise, oltre che nei campi di sterminio, nei territori dell’Unione Sovietica e della Serbia occupati dai Tedeschi.
Gli Zingari – come sono meglio conosciute le popolazioni Rom – furono tra i gruppi etnici perseguitati dal Regime nazista perché dichiarati “razza inferiore”. Il loro destino fu molto simile, in alcuni aspetti, a quello degli Ebrei: deportazione, internamento, lavori forzati, infine sterminio.
Dopo la Guerra, la discriminazione contro i Rom continuò in tutta l’Europa dell’Est e in quella Centrale. La Repubblica Federale Tedesca dichiarò ufficiali e legittimi tutti gli interventi attuati contro di essi prima del ’43 a motivo di presunti atti criminali commessi. Solo nel 1979 il Parlamento della Germania Occidentale riconobbe invece ufficialmente che la persecuzione nazista dei Rom era stata motivata dal pregiudizio razziale, rendendo così possibile una loro richiesta di risarcimento per le sofferenze e le perdite subite sotto il Regime. Peccato che per molti fosse ormai troppo tardi.
Ho voluto brevemente ricordare questa pietosa pagina di storia – perlopiù sconosciuta o dimenticata – giacché tra le innumerevoli e superflue commemorazioni che infittiscono i nostri calendari, quelle che la riguardano (il 16 maggio: “Giornata della Resistenza Rom e Sinta” e il 2 agosto: “Giornata del ricordo dell'olocausto di Rom e Sinti”) sono perlopiù trascurate.
Ma anche perché funge da valida premessa per riportare l’esito di una recentissima pronuncia della Cassazione (intervenuta – e forse è un segno! - proprio poco dopo la prima delle commemorazioni suindicate), che ha in qualche modo ribadito la necessità di scrollare un pregiudizio razziale che al di là del tempo e della storia evidentemente persiste. E lo ha fatto formulando un principio di diritto cui dovrà attenersi la Corte d’Appello in sede di nuovo giudizio e che costituirà al tempo stesso un criterio d’orientamento futuro.
La vicenda ha avuto inizio qualche anno fa, quando una giovane cittadina di Ivrea (che tempo dopo sarebbe divenuta assessore comunale) in occasione della Giornata internazionale dei rom, sinti e camminanti (8 aprile) aveva diffuso a mezzo del proprio profilo social due post in cui definiva gli “zingari, non rom, ma zingari di merda, zecche e parassiti, capaci di spolpare tutto (…) che andrebbero usati come esche con i piranha…” augurando loro “che una tagliola possa mozzarvi le mani non all’altezza del polso ma sopra il gomito cosicché la maglietta possa coprire lo scempio che vi ritrovereste ad essere... inoltre, mi farebbe alquanto schifo vedere i monchi penzolanti ai semafori mentre chiedete l’elemosina con i piedi”, e chiamandoli ancora “zecche che stanziano in campi abusivi…”.
L’ ASGI Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione), legittimata dalla legge a promuovere giudizi contro le discriminazioni e le molestie razziali, aveva pertanto agito in giudizio, ma sia il Tribunale in primo grado che la Corte d’Appello di Torino avevano rigettato il ricorso ritenendo che l’autrice del post non si fosse rivolta genericamente a tutti i Rom ma a quelli che delinquono per vivere e, dunque, che l’offesa fosse rivolta al comportamento e non all’etnia.
Con la sentenza n. 14836 del 26 maggio scorso, la Cassazione si è pronunciata sull’ulteriore ricorso presentato dall’Associazione, riconoscendone invece la fondatezza. A partire dalla normativa che chiarisce il concetto stesso di discriminazione (art. 43 del D.Lgs. 286/1998 che definisce discriminatorio qualunque comportamento. che - direttamente od indirettamente - abbia lo scopo o I’effetto di distruggere o di impedire il riconoscimento, il godimento o l'esercizio, in condizioni di parità, dei diritti umani e delle libertà fondamentali in campo politico economico, sociale e culturale e in ogni altro settore della vita pubblica; il d.lgs. n. 215 del 2003 che ha attuato in Italia la direttiva 2000/43/CE, che stabilisce “il principio di parità di trattamento tra le persone indipendentemente dalla razza e dall'origine etnica"), la Suprema Corte ha chiarito che anche le molestie sono assimilate agli atti di discriminazione, diretta o indiretta, e consistono in "quei comportamenti indesiderati, posti in essere per motivi di razza di origine etnica, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una persona e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo". Sono perciò sanzionabili quei comportamenti, non necessariamente volti deliberatamente ad offendere, che constino di due elementi: a) l'idoneità anche solo potenziale ("lo scopo o l'effetto") a ledere la dignità delle persone in relazione alla origine etnica o di razza; b) la potenziale capacità espansiva di tale comportamento, lesivo della dignità delle persone, ovvero l'idoneità di esso a diffondere l'effetto discriminatorio, a creare o incrementare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo.
Su tali basi ha dunque affermato che la molestia discriminatoria vietata dalla legge sussiste non solo quando la denigrazione è rivolta esclusivamente alla etnia, ma anche quando l’etnia viene associata a comportamenti delittuosi. Inoltre ha precisato che qualsiasi manifestazione del pensiero, anche a mezzo dei social, deve essere rispettosa del criterio della “continenza” e non può mai ledere l’altrui dignità.
Ha pertanto formulato i seguenti principi di diritto: "Integra molestia per ragioni di razza o di etnia, equiparata alle ipotesi di discriminazione diretta e indiretta e tutelata dall'art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 215 del 2003, qualsiasi comportamento che sia lesivo della dignità della persona e sia potenzialmente idoneo a creare o incrementare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante e offensivo nei confronti della predetta etnia, al di là e a prescindere da qualsiasi motivazione soggettiva"; "Può integrare gli estremi della molestia rilevante ai sensi dell'art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 215 del 2003 sia la denigrazione diretta delle caratteristiche di una etnia in quanto tale, sia l’accostamento di tale etnia a comportamenti delittuosi"; "La manifestazione del proprio pensiero sui social network, anche se inizialmente indirizzata ad una cerchia limitata di persone, gli "amici" su Facebook, deve comunque avvenire nel rispetto del criterio formale della continenza e, ove sia accertato che abbia contenuti lesivi dell'altrui dignità, può integrare gli estremi della molestia discriminatoria se rivolta verso un determinato gruppo etnico, in quanto è potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile di persone".
Non è mai troppo tardi!