Il 14 febbraio 1966, su “La Zanzara” – giornale studentesco del Liceo Parini di Milano – venne pubblicata, a firma di tre studenti, un'inchiesta intitolata "Un dibattito sulla posizione della donna nella nostra società, cercando di esaminare i problemi del matrimonio, del lavoro femminile e del sesso".
L’inchiesta lasciava emergere le (allora) moderne opinioni di alcune studentesse del liceo sulla loro educazione sessuale e sul proprio ruolo nella società, seguite dai commenti dei tre giovani redattori, che scrivevano: «…vogliamo che ognuno sia libero di fare ciò che vuole, a patto che ciò non leda la libertà altrui. Per cui, assoluta libertà sessuale e modifica totale della mentalità (…). Per cambiare la mentalità sarebbe necessario impostare il problema sessuale su basi serie, cioè introdurre una certa educazione sessuale anche nelle scuole per chiarire le idee su certi problemi fondamentali che ognuno ad una certa età si trova a vivere, in modo che il problema sessuale non sia un tabù ma venga prospettato con una certa serietà e sicurezza…».
Le reazioni, specie quelle dei cattolici (nello specifico, l'associazione cattolica “Gioventù Studentesca”) furono immediate, per via dell’”offesa recata alla sensibilità e al costume morale comune". Così, qualche settimana dopo i tre studenti ed il preside del Liceo vennero denunciati con l’accusa di stampa oscena e incitamento alla corruzione.
Il caso rimbalzò sulle cronache nazionali, creando divisioni nel mondo politico e cattolico; il processo che seguì fu attenzionato anche dalla stampa internazionale e si concluse il 2 aprile 1966 con una pronuncia di assoluzione, cui il Presidente del Tribunale fece seguire una piccola paternale ai tre ragazzi: "Non montatevi la testa, tornate al vostro liceo e cercate di dimenticare questa esperienza senza atteggiarvi a persone più grandi di quello che siete".
La vicenda fu tuttavia considerata emblematica nel contesto di quei cambiamenti di idee e costumi che avrebbero dato il via, di lì a poco, alle contestazioni studentesche del Sessantotto, sull’onda di quel fermento ideologico e culturale che tanto avrebbe mutato la società italiana.
Oggi quell’inchiesta farebbe sorridere, di fronte alla disinvoltura – se non addirittura all’impudenza – con cui alcune espressioni e gesti poco ortodossi o affatto sobri sono stati sdoganati, al punto di relegare in soffitta giudizi morali ritenuti antiquati, salvo poi a riesumarli ed impiegarli all’occorrenza - opportunamente adattati - a difesa contro presunte offese.
Un esempio:
14 febbraio 2022 (neanche a farlo apposta cinquantasei anni esatti dopo l’episodio appena narrato), Liceo Righi di Roma. Al cambio dell’ora, nel corridoio delle aule, una studentessa sedicenne - incurante d’essere in un luogo deputato all’istruzione e in aperta violazione di ogni regolamento vigente in qualunque scuola italiana - è intenta a girare un video in cui si esibisce in una danza, destinato all’utenza di Tik Tok.
Presa dal ballo – o forse anche per rendere la performance più accattivante – lascia che la sua maglietta (già di per sé corta), si sollevi scoprendole la pancia. L’insegnante frattanto sopraggiunta la redarguisce, rivolgendole l’interrogativo retorico: "Ma che stai sulla Salaria?"
Al di là delle apparenze e della sua sfrontatezza nel rilanciare succinte immagini di sé sui social, la ragazzina ripresa – cui probabilmente non sfugge il significato delle pratiche in uso sulla nota via consolare – è evidentemente molto sensibile, dal momento che percepisce le parole usate dall’insegnante come un insulto, una umiliazione, un’offesa alla sua dignità di donna.
In men che non si dica scoppia la polemica, in cui inzuppano tutti: dai giornalisti ai politici e, soprattutto, i frequentatori di social, esponendo l’insegnante ad un linciaggio mediatico spietato in nome della libertà d’espressione e dei diritti delle donne, dove si tirano in ballo anche argomenti quali sessismo, maschilismo, pregiudizi, razzismo e bla bla bla.
La Preside dell’istituto, definendo “infelice” la frase utilizzata nei confronti della ragazza, prende le distanze dall’insegnante - rea di aver richiamato al decoro ed al buon senso un’alunna! - riservandosi di disporre a suo carico un provvedimento disciplinare. Tenta tuttavia di stemperare la polemica dichiarando che il richiamo non era un commento sull'abbigliamento ma una messa in guardia sulla pubblicazione di un video.
Insomma, la tattica del “pesce in barile”; nella specie quella di chi, pur consapevole della costante deriva giovanile verso comportamenti e tendenze votate alla superficialità, alla stupida emulazione, al bisogno di apparire per attrarre consensi virtuali e – ammettiamolo – pure all’ignoranza, tende tuttavia ad assecondarne visioni distorte e strumentalizzazioni pur di non cadere vittima di critiche mediatiche altrettanto insulse.
E mentre la pletora degli studenti protesta sfoggiando a mo’ di imperativo identitario calzoncini, top e minigonne, succede che, piuttosto che prendersi le difese di una docente, suffragandone un intervento che – al di là dell’ “infelicità” della formula impiegata - rientra pur sempre (non dimentichiamolo!) in quella funzione educativa che, insieme alla didattica, resta un compito imprescindibile della scuola, la si metta alla gogna, alla mercé di quanti evidentemente dimenticano che ci sono condotte e stili che, non solo risultano inadeguati a certi contesti, ma si traducono in strumenti di comunicazione attraverso cui si filtrano contenuti che hanno ben poco di pedagogico.
L’abito non fa il monaco, è vero; e tuttavia l’abbigliamento – insieme al trucco, alle movenze di una danza ed altre espressioni di sé rimbalzate attraverso i social - sono importanti forme di comunicazione non verbale con cui ci si espone e si trasmette anche la propria considerazione di ciò che si ha intorno. Mettersi, perciò, in una “vetrina mediatica” qual è quella che foraggia gli appetiti social non è, di certo, una condotta paragonabile a quella di chi (per scelta o costrizione) frequenta “alcune strade”, e, tuttavia, non è meno insidiosa.
“Gli studenti sono tenuti ad avere nei confronti del capo d'istituto, dei docenti, del personale tutto della scuola e dei loro compagni lo stesso rispetto, anche formale, che chiedono per se stessi”: recita così l’articolo 3 dello Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria, prevedendo anche sanzioni disciplinari per il caso di violazione. Ma vi sfido a trovarla una sola riga in cui, oltre alla sanzione per l’insegnante, sia stato scritto di possibili provvedimenti pure a carico dell’alunna!