“Egregia direttrice Lo Preite chi scrive sono i detenuti della sezione che nei scorsi giorni hanno intrapreso uno sciopero pacifico per solidarietà ad un detenuto della stessa sezione che da 3 giorni vomitava sangue e non veniva visitato. Abbiamo chiesto un confronto con lei e non rispondendoci ci ha costretti a non rientrare nelle celle affinché non fosse stato visitato il detenuto. In 2 anni di mandato ha trasformato questo carcere in uno staliniano gulag “da dove si entrava vivo non era certo di uscire nella stessa modalità”.
Inizia così, senza preamboli né edulcorazioni, la lettera aperta che pochi giorni fa hanno scritto i detenuti del carcere Mammagialla di Viterbo a seguito della protesta pacifica messa in atto per reclamare il rispetto dei loro diritti alla salute e all’assistenza medica, che, da quanto emergerebbe dallo stesso scritto, sembra essere stato negato a causa dell’incompetenza e della mancanza di volontà di alcuni operatori sanitari.
“La bontà della nostra protesta ha purtroppo ricevuto conferma dagli eventi successivi ed è stata punita trasformandoci per sua decisione da detenuti in prigionieri”- prosegue la lettera – “Questa prigionia ha provocato un tentativo di impiccagione (salvato dal pronto intervento del suo compagno di cella) e un decesso nella serata del venerdì 8 settembre. La morte del detenuto Imran, bengalese che veniva segnalato durante il confronto con la comandante come persona ammalata e non curata, è stata classificata come “naturale” ma noi riteniamo che con le adeguate cure pretendenti poteva essere salvato!!! Tra l’altro il detenuto defunto aveva un residuo pena di pochi mesi e di certo non poteva essere considerato socialmente pericoloso ma purtroppo è noto che a Viterbo i benefici della legge non vengono quasi mai applicati.”
Accuse durissime, cui fa seguito l’auspicio dei “prigionieri” puniti – come loro stesso si definiscono - “che chi di dovere abbia ad intervenire in una conclamata situazione al di fuori di ogni standard europeo e di umanità.” Esprimono pure “comprensione nei confronti del personale di custodia, vittima come noi di un sistema malato o, meglio, mal gestito”, e chiosano con “la speranza che tutto non venga messo a tacere mediante i soliti trasferimenti di detenuti diventati testimoni e comunque scomodi.”
Ancora una volta sulle condizioni delle carceri viene richiamata l’attenzione mediatica e delle istituzioni, con risultati finora solo auspicati e mai tradotti in interventi concreti e risolutivi.
Le morti intanto continuano a crescere (sono 112 i detenuti morti dall’inizio dell’anno: 50 per impiccagione o per avere inalato gas, 62 per altre cause), nel silenzio in cui nuovamente ricadono cessata l’eco momentanea dello sdegno e dell’allarme.
E non c’è solo la mancanza di cure mediche a mietere vittime: ci sono anche i maltrattamenti, ma soprattutto c’è l’indifferenza, smossa soltanto quando vicende ed implicazioni d’altra natura sollecitano l’attenzione pubblica.
L’esempio più recente ed eloquente è quello di Susan, nigeriana di 42 anni, condannata a Catania a 10 anni e 4 mesi di reclusione per tratta di persone e trasferita a fine luglio nel carcere di Torino per essere vicina al marito e ai loro due figli. È morta dopo soli venti giorni di reclusione: di fame e di sete. Non si è trattato di uno sciopero della fame conclamato, giacché Susan non ha mai chiesto nulla né tanto meno, col suo rifiuto, ha voluto attirare l'attenzione mediatica sul proprio caso. Semplicemente si è lasciata morire, senza fornire un perché.
Gli interrogativi che sorgono di fronte alla sua vicenda sono molti: se anche in questo caso siano state o meno prestate adeguate cure sanitarie; perché non sia stato disposto un trattamento sanitario obbligatorio; perché non le sia stato dato l’aiuto psicologico che probabilmente le necessitava. E si fanno ancora più pressanti quando emerge che oltre al caso di Susan, ce n’erano stati poco tempo prima un altro paio, uguali, nel carcere di Augusta, in Sicilia, passati sotto silenzio, rimasti sconosciuti all'esterno.
E viene allora da pensare che bisogna essere privilegiati anche da reclusi se, a chiamarsi Cospito, si beneficia di un consistente supporto all’esterno, di squadre di avvocati, attivisti e sostenitori che con le loro azioni sostengono la propria lotta in carcere contro un guasto che va rivisto, mentre, se si è degli anonimi ed insignificanti prigionieri, perlopiù d’altra lingua e d’altra etnia, la notizia della propria morte arriva solo quando è troppo tardi o non arriva affatto.
Così è stato per Susan, morta – sì – di fame, ma anche di indifferenza e mancanza di comunicazione con l'esterno, giacché la squallida cella del “Reparto di articolazione tutela salute mentale” (roboante fuffa senza sostanza) del carcere in cui era rinchiusa, priva di personale specializzato e assistenza adeguata, non ha fatto altro che aumentare il suo isolamento e il suo vuoto.
Poche ore dopo la morte di Susan, nello stesso carcere anche Azzurra, 28 anni, affetta da disturbi psichiatrici, ha cessato di vivere, impiccatasi nella propria cella.
L’ennesima, drammatica dimostrazione, che finché qualcosa non cambierà, finché ci si limiterà alle visite di protocollo ed alle formali dichiarazioni di solidarietà all’istituzione carceraria, al ministero competente, alla polizia penitenziaria piuttosto che alle vittime, finché continueranno ad essere lamentati la penuria di agenti, il sovraffollamento e la precarietà delle strutture piuttosto che garantire il rispetto minimo dei diritti e ad ottenere qualche miglioramento della condizione dei detenuti, il carcere non potrà avere alcuna funzione guaritrice o rieducatrice. Anzi continuerà ad uccidere: gli individui certamente, e, prima ancora, le loro speranze.