Non è la prima volta che i dati INVALSI lanciano l’allarme, giacché negli ultimi anni il fenomeno è divenuto una costante: la dispersione scolastica continua a registrare numeri elevati; ma ciò che parimenti preoccupa è che accanto a quella “esplicita”, da “banco vuoto”, che si sostanzia nell’abbandono precoce degli studi, è drammaticamente incidente anche la percentuale della dispersione c.d. “implicita”, per tale intendendosi il mancato conseguimento, da parte degli studenti, delle competenze attese a conclusione del loro ciclo di studi.
Se n’è discusso qualche giorno fa in occasione del Convegno “Impossibile”, promosso da Save The Children sulle problematiche e le aspettative che riguardano bambini e adolescenti. In quella sede sono state rese note le preoccupanti percentuali del fenomeno: il 45% di ragazzi e ragazze di 15 anni non è in grado di raggiungere un livello minimo di competenze in italiano, e per la matematica la percentuale sale addirittura al 51%.
In sostanza, gli adolescenti italiani non sono in grado di comprendere il significato di un testo scritto, non sanno svolgere un ragionamento logico e non sanno eseguire un semplice calcolo aritmetico. Mancano, insomma, di quelle competenze di base che un tempo si declinavano nella formula “saper leggere, scrivere e far di conto”.
Le cause di un tale indebolimento formativo sono di varia natura: senz’altro vi ha inciso fortemente il ricorso alla DAD durante la pandemia, risultata inadeguata e scarsamente compensativa della didattica in presenza ai fini dell’apprendimento.
Ma non meno responsabili sono da ritenersi le riduzioni e le facilitazioni di alcuni programmi; la perdita di dimestichezza con la scrittura manuale (che, peraltro, per il residuo che avanza conosce soltanto i caratteri in stampatello ed ignora il corsivo, che non è, ben inteso, quello squallidissimo “insegnato” da una tiktoker star del momento) a vantaggio dell’uso di touchscreen e tastiere; l’uso eccessivo d’una scrittura sincopata e simbolica (vedasi quella del linguaggio impiegato su chat e social); la scarsa attenzione alla lettura e l’abbandono della memoria (nessuno più ricorda a mente una poesia e persino una filastrocca!) come esercizio mentale.
In più c’è il divario geografico, poiché - com’è sempre stato - sono le regioni del Sud d’Italia e le Isole (vuoi per una questione culturale in senso ampio, vuoi per la maggior presenza di contesti deprivati) le zone in cui i fenomeni dispersivi sono più accentuati.
Il tutto porterebbe alla conclusione che una tale situazione possa avere ricadute negative nella società “adulta” – nel mondo del lavoro, nelle scelte di vita, sulla tutela dell’ambiente – fino a minarne la “tenuta democratica”, come ha sottolineato il presidente di Save the Children, Claudio Tesauro.
Voglio allora partire proprio da qui, da quest’ultimo passaggio, per tentare di ricostruire una riflessione sull’importanza della cultura e sul potere della conoscenza, quello “sano”, fatto di ragione e saperi che consentono di discernere le insidie di un altro potere – quello “sopraffattivo” - che fa leva sull’ignoranza per dominare.
Si potrebbe risalire fino al “mito della caverna” di Platone a dimostrazione del valore salvifico della conoscenza, che per il filosofo ateniese equivaleva a verità: i prigionieri incatenati nella caverna rappresentano la maggior parte dell’umanità, lasciati al buio della loro ignoranza; l’uomo che riesce a liberarsi e ad evadere dalla caverna giunge ad un altro e più alto livello di conoscenza, che gli rivela la realtà. E allora torna nella caverna per raccontare la sua scoperta ai suoi compagni e portare anche loro verso la conoscenza, col rischio però di non essere creduto, che essi scelgano di rimanere nel buio e nella costrizione della loro ignoranza che rappresenta la loro massima conoscenza e unica verità.
È una metafora vecchia di più di duemila anni, eppure è ancora attualissima. Dimostra come la conoscenza sia una potente conquista di verità ma sia soprattutto libertà dalle manovre di potere altrui.
Viene allora da domandarsi chi dovrebbe fare cosa per modificare questo stato di cose; su chi pesa la responsabilità dell’ignoranza delle nuove generazioni e quanto esse stesse siano conniventi con l’inerzia o il mal proficuo impegno speso per migliorare il nostro sistema scolastico.
È un interrogativo ricorrente che si ripresenta puntuale di fronte al varo d’ogni nuova riforma, nel timore che si riduca all’ennesima danza di chiacchiere, protocolli e programmi cui di fatto nella pratica non corrisponda alcunché di effettivo.
Nel difetto di efficaci interventi “calati dall’alto” potrebbe intanto allora guardarsi a quelle mancanze di più immediato riscontro, che sarebbero risolvibili con un incremento di impegno “sul campo”. Basterebbe, ritengo, che gli insegnanti per primi diventassero davvero e più efficacemente motivatori dei loro studenti, si trasformassero in tanti Prof. Keating (quello di “o capitano mio capitano” de “L’attimo fuggente”) capaci di accendere la fiamma dell’interesse e della curiosità nelle menti dei giovani cui è diretta la loro missione educativa, al fine di sollecitarli a diventare essi stessi protagonisti del proprio apprendimento e del proprio sapere.
Mi viene in mente a proposito un breve e significativo brano tratto da una lettera che qualche anno fa fu indirizzata a Corrado Augias:
“Ricordo ancora la domanda che ci fece il professore di Filosofia il primo giorno di liceo: “A che cosa servire studiare? Chi sa rispondere?" Qualcuno osò rispostine educate (“a crescere bene…”, “a diventare brave persone…”). Niente, scuoteva la testa. Finché disse: “Ad evadere dal carcere”. Ci guardammo stupiti. “L'ignoranza è un carcere – aggiunse. – Perché là dentro non capisci e non sai che fare. In questi cinque anni dobbiamo organizzare la più grande evasione del secolo. Non sarà facile, vi vogliono stupidi, ma se scavalcate il muro dell'ignoranza, poi capirete senza dover chiedere aiuto. E sarà difficile ingannarvi. Chi ci sta?"
Basterebbe già questo: che sulla spinta di insegnanti appassionati, virtuosi e competenti gli studenti capissero che, a differenza di quanto lamentano, il carcere non è la scuola ma l’ignoranza; che è dal suo buio, dalla sua cecità, dal suo ergastolo che devono evadere per diventare uomini e donne capaci di pensare con la propria testa, consapevoli e prudenti; che nel sapere è la potenza, quella bastevole a proteggere la propria libertà.