Mi capita a volte che una notizia letta o ascoltata, una situazione che attiri la mia attenzione, diventino uno spunto per svolgere riflessioni più ampie che, compiendo a volte dei veri e propri voli pindarici, mi fanno atterrare su un terreno apparentemente distante dalla base di partenza.
Così è stato qualche giorno fa, quando ho sentito al Tg la notizia dei due schermi circolari che sono stati installati davanti alla stazione di Vilnius, la capitale lituana, e nella piazza principale di Lublino, in Polonia, attraverso i quali è possibile mettere in collegamento visivo i passanti, in tempo reale, abbattendo così la distanza di oltre 600 km che li separa e creando quindi tra loro una sorta di ponte virtuale, uno “Stargate” (com’è stato definito, evocando il titolo di un noto film in cui un portale spaziotemporale consentiva il teletrasporto delle persone da una parte all’altra dell’universo) che li avvicina.
Sarò una nostalgica o – come si dice ora – una “passatista”, ma da lì i miei ricordi sono andati a ritroso nel tempo, a quando non c’erano social, chat e telefonini e tra ragazzi che vivevano in città diverse veniva incoraggiata la pratica dell’”Amico di penna”. A scuola, in particolare nelle classi superiori, venivano consegnati agli alunni gli indirizzi di altrettanti omologhi sparsi altrove, in altre città italiane o anche all’estero (anzi, in tal caso la finalità era anche quella di acquisire dimestichezza con l’uso di altre lingue), che da quel momento diventavano corrispondenti con cui scambiarsi notizie d’ogni genere, persino confidenze quando il rapporto si fosse in qualche misura consolidato. Generalmente quei ragazzi erano destinati a non incontrarsi mai, nonostante desideri e promesse espressi in tal senso, e rimanevano perciò, per un tempo più o meno lungo, soltanto i destinatari di lettere scritte a mano, su carta colorata e decorata da disegni e adesivi, che si attendevano con gioia e trepidazione ad intervalli anche lunghi di settimane o mesi.
Mi è poi tornato in mente il “diario segreto” (chi di noi, ragazze soprattutto, non ne ha avuto uno?) in cui raccoglievamo le nostre confessioni, i sentimenti non detti, i rimorsi, i desideri e le speranze. Ricordo che il mio lo scrivevo utilizzando l’alfabeto greco, nel timore che mia madre (che aveva fatto le scuole magistrali e non il liceo classico), potesse venirne in possesso e invadere quel mio “deposito di pensieri”.
Da lì, è stato breve il salto alla considerazione di quanto al giorno d’oggi noi tutti – ma i giovani in particolare – abbiamo alimentato la tendenza a mettere da parte la scrittura, - quella vergata sulla carta con la penna, per intenderci - a vantaggio dei sistemi di scrittura elettronica che, inevitabilmente, finiscono per impoverire non solo il nostro lessico ma anche l’uso stesso, fisico, della grafia.
Ho avuto modo di constatarlo spesso nel corso della mia esperienza scolastica, accorgendomi di quanto i ragazzi – tanto abili a scrivere col supporto di tastiere e touch – trovino invece difficoltà quando devono confrontarsi con un foglio bianco e una Bic.
I più non sono in grado di prendere appunti durante le spiegazioni e la loro grafia è incerta e stentata, perlopiù confusa; i caratteri in stampatello maiuscolo si mescolano al corsivo, col risultato di produrre pagine disordinate e incomprensibili.
La difficoltà di scrittura comporta inevitabilmente anche difficoltà di organizzare il pensiero e, dunque, di esprimersi efficacemente.
Anche la difficoltà di leggere è spesso una conseguenza del difetto di pratica di scrittura e non è un caso se tra le nuove generazioni siano aumentati i disturbi di apprendimento legati a disgrafia, disortografia e dislessia.
Viene allora da pensare che, per quanto il processo di digitalizzazione – tanto nella scuola quanto in ogni altro ambito - sia oggi divenuto ormai indispensabile, è tuttavia altrettanto necessario che anche la scrittura a mano venga favorita e stimolata. Ciò non significa che debba tonarsi a quella cura anche estetica della grafia che, fino agli anni sessanta, costituiva addirittura una pratica didattica (la c.d. “calligrafia”) ma di certo maggiori attenzioni ed incentivi al suo utilizzo sono necessari e auspicabili.
Del resto è scientificamente provato che la scrittura a mano, soprattutto in corsivo, produca enormi benefici per lo sviluppo cognitivo in età infantile, contribuendo a stimolare nel bambino aree del cervello deputate al pensiero, al linguaggio, alla manualità e alla memoria.
Redigere testi scritti in maniera chiara e ordinata è, dunque, un ottimo allenamento cerebrale, tanto dal punto di vista della comprensione che da quello della produzione dei testi, capacità, queste, che anche l’abusata pratica del “copia incolla” ha contribuito a compromettere seriamente.
Oltre a ciò è innegabile che il gesto grafico dello scrivere abbia anche una valenza riflessiva del nostro mondo interiore, delle nostre percezioni, delle nostre emozioni. Spesso, anzi, scrivere giunge ad assumere addirittura un profondo valore terapeutico e catartico, laddove si riesca ad affidare alla penna il senso esatto di ciò che risulta più difficile esprimere a voce.
Nel mio piccolo, è un esercizio che curo con costanza.
Continuo a comprare penne d’ogni tipo ed ho sempre accanto al pc un quaderno Moleskine ed un taccuino più piccolo in borsa, in cui appunto idee, pensieri e stralci di tutto ciò che poi mi servirà per scrivere un articolo o un racconto, spesso anche lettere – che poi ricopio “in bella”- quando ho bisogno di una comunicazione più intima ed efficace con persone che mi stanno a cuore. Di ogni viaggio che ho fatto ho redatto un dettagliato diario, in un esercizio serale in cui la meraviglia e la bellezza di ciò che avevo visto ed osservato durante il giorno erano ancora forti e vivi, sì da guidare le mie emozioni e la mia penna.
Amo molto l’odore dell’inchiostro sulla carta e rifuggo l’dea di delegare ogni mia “creatura” ai tasti d’un computer, nel timore che, altrimenti, col tempo, possa dimenticare l’uso della penna, vedere modificati i miei grafemi a causa della disabitudine, perdere quella varietà di tratti che, nel modo più o meno profondo con cui vengono incisi sul foglio o per via delle cancellature, della diversa inclinazione dei caratteri o della rapidità di composizione, valgono a rivelare l’andamento del mio umore e ad esprimere quel “non verbale”, che spesso è molto più intenso e profondo dello scritto.
Sarebbe opportuno, ritengo, incoraggiare la scrittura, se non altro per la sua grande capacità di riuscire ad estrarre la parte più umana di ciascuno di noi, impiegarla come esercizio per riflettere, per esprimersi, per comprendersi, come capita quando ci rileggiamo a distanza di tempo.
Gli studenti, in particolare, andrebbero incitati ad una maggior pratica di questa meravigliosa arte, creativa e magica più d’ogni stimolo indotto da giochi elettronici, App e “stargate”, niente di più lontano da ciò che dovrebbe contribuire a nutrire la nostra sensibilità e la nostra umanità.