15 febbraio 2025

Loud quitting, il fenomeno delle proteste sui luoghi di lavoro

Un trend che interessa le giovani generazioni e nasce dall’idea di rifiutare l’idea che il lavoro debba prendere il sopravvento sulla vita. Consiste nel protestare facendo molto rumore, anche via social, prima di licenziarsi o per ottenere vantaggi concreti

Autore: Germano Longo
Il lavoro è un concetto sempre più liquido, in mutazione perenne: là dove un tempo c’era il lavoro a ogni costo e il posto fisso raggiunto dopo il concorso, ora c’è molto altro, sintetizzato in definizioni che, per forza di cose, sono prese a prestito dalla lingua inglese per meglio spiegare i fenomeni.

Insomma, un modo come un altro per dire che, dopo le “Great Resignation”, le grandi dimissioni, e il “Quiet Quitting”, la tendenza a fare lo stretto necessario senza assumersi responsabilità, spunta il terzo incomodo: il “Loud Quitting”.

Cercandone un senso accettabile nella lingua italiana, potrebbe essere tradotto come “abbandono rumoroso”, ed è la tendenza a manifestare nel modo più chiassoso possibile cosa non va. Per Yessi Bello Perez, news creator per LinkedIn, “Si tratta di rifiutare l'idea per cui il lavoro debba prendere il sopravvento sulle nostre vite, e che i dipendenti debbano dare di più, anche quando eccede i compiti e le mansioni ordinarie”.

Una pratica che a volte precede le dimissioni date in modo plateale, ma in molti più casi ha come fine ultimo riuscire a ottenere qualche beneficio, spingendo i capi a concedere vantaggi come flessibilità negli orari, voci aggiuntive di welfare, aumenti di stipendio e smart working. Ma certo, si tratta di un trend che può avere ripercussioni per il lavoratore che protesta - spesso utilizzando la gogna mediatica dei social per fare ancora più rumore - e che, lasciando tracce sul web, diventa una potenziale macchia scura cercando un nuovo lavoro, visto che sono pochi i datori che apprezzano le piazzate. Ma è deleterio anche per le aziende, che spesso finiscono al centro di casi virali in grado di scatenare parecchi danni d’immagine.

Daymond John, un giudice di “Shark Tank”, reality americano che mette di fronte giovani imprenditori e potenziali investitori, ha dettato i confini del Loud Quitting: “Se vedete un gruppo di persone che si licenzia, farete meglio a prestare attenzione a ciò che sta accadendo al vostro personale e al vostro team, perché avete risvegliato così tante emozioni che queste persone hanno iniziato a dire collettivamente: non mi interessa cosa mi succede, questo posto fa schifo”.

Una tendenza che sta diventando un’arma delle giovani generazioni, più portate alla protesta e alla sensazione di lottare per la giustizia, dando sfogo ai propri pensieri. Segno dei tempi, secondo una ricerca della “Gallup”, l’istituto statunitense per le ricerche statistiche e l’analisi dell’opinione pubblica: negli States il processo di coinvolgimento dei dipendenti ha toccato i minimi storici, e solo il 31% dei dipendenti dichiara di sentirsi coinvolto a livello aziendale. Tradotto in denaro contante, il disimpegno sul posto di lavoro costa all'economia globale 8,8 trilioni di dollari all’anno.

C’entra la mancanza di aspettative, l’appiattimento dei sogni e la sensazione di abbandono, indizi sufficienti per accendere il fuoco di questo malessere moderno, che spesso finisce per sfociare nel quiet quitting, il tirare avanti senza fare una virgola di più di quel che è richiesto, con l’unica ambizione che ogni settimana arrivi in fretta il venerdì pomeriggio.

Tra i motivi scatenanti, le relazioni difficili con colleghi e superiori, ma anche le richieste di impegno eccessive, con straordinari non retribuiti e una diffusa cecità aziendale verso i bisogni e le necessità del personale. Cose che hanno un peso specifico molto alto, come accertato anche dalla recente indagine “Workforce Confidence” di LinkedIn, secondo cui il 69% dei lavoratori lascerebbe il proprio posto di lavoro immediatamente se avesse un cattivo capo.
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