È facile che, di temi da tempo discussi come l’omotransfobia, le famiglie arcobaleno ed altri che, in misura più o meno ampia, siano riconducibili a “idee progressiste”- “teorie sociologiche” - “ideologie di bandiera” (a seconda della categoria con cui si scelga di etichettare l’“agenda gender”), possano alimentare il dibattito politico e persino la propaganda elettorale: trattandosi di argomenti su cui l’opinione pubblica e la coscienza collettiva mantengono profonde distanze di vedute, diventa infatti anche strategico impiegarli come terreno di scontro/confronto, a discapito talvolta (ferma restandone l’importanza) di altre priorità.
Recenti esempi confermano del resto tale tendenza, con – anzi – un intensificarsi del dibattito (ma soprattutto delle polemiche che la accompagnano) laddove quei temi lambiscano il cerchio sacro della pedagogia. Senza voler necessariamente rivangare l’intera vicenda del Ddl Zan dello scorso maggio, basti infatti ricordare che già la sola norma di quel disegno che prevedeva l’istituzione di una Giornata nazionale contro l’omofobia, la lesbofobia, la bifobia e la transfobia (da tenersi ogni 17 maggio nelle scuole di ogni ordine e grado, allo scopo di “promuovere la cultura del rispetto e dell’inclusione, nonché di contrastare i pregiudizi, le discriminazioni e le violenze motivati dall’orientamento sessuale e dall’identità di genere in attuazione dei principi di eguaglianza e di pari dignità sociale sanciti dalla Costituzione”) è stata tra quelle che hanno destato maggior scandalo, insieme alla “incauta” nota del Ministero dell’Istruzione che, sempre nello stesso periodo – ritendendo, a prescindere da una legge che non c’è, di doversi allineare a quanto avviene sia in Europa che nel resto del mondo, – ha invitato le scuole ad organizzare “occasioni di approfondimento con i propri studenti sui temi legati alle discriminazioni, al rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali”.
Lo stesso è avvenuto, proprio in questi giorni di campagna elettorale, con l’insurrezione scatenata dall’episodio di Peppa Pig – peraltro andato in onda oltre confine – in cui veniva presentata una famiglia con due mamme: pure stavolta c’è stato chi ha spedito dritto sul banco degli imputati il cartone animato perché accusato di “influenzare la mente dei bambini e normalizzare situazioni che si fondano sull’ideologia gender”.
Non mi attardo in commenti che andrebbero senz’altro nella direzione di evidenziare palesi incoerenze e, soprattutto, la pretestuosità di discussioni impiegate per sviare l’attenzione da questioni di ben altra portata.
Mi serve tuttavia questo spunto per agganciarmi ad un’altra notizia che, pur non avendo di fatto alcuna portata politica, rischia suo malgrado di assecondare qualche corrente per via della contingenza, quando invece le critiche che dovrebbe richiamare hanno una ben precisa collocazione, di natura prettamente linguistica.
Si tratta dell’annunciata nuova edizione del Vocabolario Treccani, presentata in anteprima ieri al festival Pordenonelegge: il primo dei tre volumi di cui si compone, il Dizionario dell’italiano, “lemmatizza anche le forme femminili di nomi e aggettivi tradizionalmente registrati solo al maschile, promuovendo inclusività e parità di genere”, come si legge sul sito web della storica casa editrice, che così prosegue: “sarà il primo vocabolario a non presentare le voci privilegiando il genere maschile, ma scegliendo di lemmatizzare anche aggettivi e nomi femminili. Una rivoluzione che riflette e fissa su carta la necessità e l’urgenza di un cambiamento che promuova l’inclusività e la parità di genere, a partire dalla lingua. Cercando il significato di un aggettivo come bello o adatto troveremo quindi lemmatizzata, ovvero registrata e quindi visualizzata in grassetto, anche la sua forma femminile, seguendo sempre l’ordine alfabetico; bella, bello; adatta, adatto. E per la prima volta vedremo registrati dei nomi identificativi di professioni che, per tradizione androcentrica, finora non avevano un’autonomia lessicale: notaia, chirurga, medica, soldata. Per eliminare anche gli stereotipi di genere – secondo i quali a cucinare o a stirare è immancabilmente la donna, mentre a dirigere un ufficio o a leggere un quotidiano è puntualmente l’uomo – Treccani propone nuovi esempi di utilizzo e contestualizzazione ed evidenzia il carattere offensivo di tutte le parole e di tutti i modi di dire che possono essere lesivi della dignità di ogni persona.”
Vada pure per gli stereotipi di genere, ma – a costo di sembrare nostalgica, conservatrice, passatista o quello che sia - ritengo che risponde ad un’esigenza di rispetto della lingua e della grammatica italiana mantenere separate dalle loro regole le istanze (più o meno condivisibili) dettate dal progresso, in ossequio ad una tradizione linguistica che, nella sua ricchezza, contempla strumenti che comunque consentono di distinguere i generi. Si pensi ai nomi mobili, indipendenti, promiscui, di “genere comune” (già, ci sono anche quelli, ed è solo l’articolo che li precede a fare la differenza tra maschile e femminile!): provate ad aprirlo un libro di grammatica dei vostri figli o dei vostri nipoti e stupitevi della bellezza e della ricchezza del nostro patrimonio lessicale!
La rivoluzione introdotta dal nuovo dizionario temo, allora, che trascuri un dannosissimo effetto collaterale: quello di impoverire - dietro l’apparente ampliamento prodotto dal raddoppio di alcune parole - la nostra lingua e la nostra stessa identità culturale, traducendosi di fatto in una sorta di “scontistica” che – pur di soccorrere all’imperativo di separare i generi – elimina una serie di preziose finezze, contribuendo ad alimentare quella pigrizia culturale che affligge già abbondantemente la moderna popolazione studentesca.
Guai a confondere le questioni di sostanza con quelle che hanno legittimità a restare solo di forma!
Almeno in nome della cultura, quando il progresso rischia di precipitare nell’eccesso, sarebbe opportuno trattenerlo.