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L’attualità di un grande maestro

Autore: Ester Annetta
Mi sono per caso imbattuta nella lettura di grazioso articolo che descriveva le “virtù educative” della penna verde, evidenziando come negli ultimi tempi stia diffondendosene l’utilizzo, da parte degli insegnanti, come strumento di valutazione positivo, in luogo (ed in contrapposizione) delle tradizionali correzioni in rosso o blu.

Lo scopo dell’uso di un tratto verde è infatti quello di sottolineare ciò che, in un elaborato, merita riconoscimento e valorizzazione.

Un rivoluzionario cambiamento di prospettiva, dunque - e, conseguentemente, di approccio educativo - rispetto al passato, per cui vuole porsi l’accento non su ciò che manca o deve essere corretto ma su ciò che l’alunno ha fatto bene.

A ben vedere non si tratta di un metodo del tutto nuovo: i miei coetanei ricorderanno senz’altro la comparsa, a metà degli anni ’70, delle penne multicolore che, abbassando la levetta corrispondente, consentivano il passaggio da una colorazione d‘inchiostro ad un’altra. C’erano il blu, il nero, il rosso e il verde; quest’ultimo era usato dagli studenti perlopiù per disegnare o scrivere frasi sul diario, mentre qualche insegnante avanguardista lo utilizzava in luogo del rosso per sottolineare in maniera meno brutale gli errori. Un piccolo gesto rivoluzionario anche quello, ma ancora troppo sporadico e guardato con diffidenza dai più tradizionalisti, perché si potesse contare su una sua larga diffusione.

Ad ogni modo, questa curiosità mi ha offerto lo spunto per ripensare ad un’importante figura che ‘ha fatto scuola’ in ogni senso e che proprio lo scorso 3 novembre avrebbe compiuto 99 anni.

Il maestro Alberto Manzi è stato un autentico rivoluzionario – come del resto egli stesso si è sempre definito – e con quella formula da lui stesso coniata “Fa quel che può e quel che non può non lo fa’” è stato tra i concreti pionieri della posa di quella pietra angolare su cui si erge l’intero costrutto dell’inclusione: valorizzare le abilità residue piuttosto che rimarcare le inabilità.

Aveva elaborato quella formula – che aveva fatto imprimere su un timbro con cui bollava tutte le pagelle – come gesto di protesta contro la riforma scolastica che, negli anni ’80, aveva preteso la redazione di schede di valutazione per ogni alunno. Il suo rifiuto era stato netto, giacché riteneva che un giudizio fosse un marchio per i ragazzi, “perché il ragazzo cambia, è in movimento…”. Una disobbedienza che gli era costata quattro mesi di sospensione dall’insegnamento (e dallo stipendio) e una denuncia alla Procura della Repubblica, che tuttavia ottennero solo l’esito di fargli modificare la forma, ma non la sostanza del suo giudizio. Come raccontò lui stesso in un’intervista, “…il giudice mi disse: ‘Maestro, ma lei questi giudizi li scrive col timbro… così ci prende in giro!’. Allora l’anno successivo li scrissi a mano, ma sempre lo stesso giudizio”.

Ma la rivoluzione più profonda del maestro Manzi risale ad anni ancora addietro, quando divenne “il maestro d’Italia” con un pionieristico metodo di ‘didattica a distanza’ che – lo si deve riconoscere – ha ottenuto risultati ben più soddisfacenti di quella moderna, nonostante gli strumenti che aveva a disposizione fossero solo dei grandi fogli ed un pezzo di gesso (o, al massimo, un proiettore luminoso).

Per anni – dal 1960 al 1968 – intrattenne una folla immensa davanti alla TV con la trasmissione “Non è mai troppo tardi”, col risultato di far prendere la licenza elementare a un milione e quattrocentomila italiani. Si trattò del più grande esperimento “multimediale” di educazione degli adulti, preso poi a modello anche da altri Stati, e indicato nel 1965 dall’Unesco come uno dei migliori programmi televisivi per la lotta contro l’analfabetismo.

Una missione, quella del maestro Manzi, vissuta in maniera così profonda e sentita da spingerlo a farne uno strumento di riscatto e progresso anche oltre i confini nazionali, tra le popolazioni povere e sfruttate del Sud America. Anzi, tutto era cominciato proprio lì, quando, nel 1955, inviato nella foresta amazzonica per una ricerca scientifica sulle formiche (allora era un biologo e non ancora un insegnante), a contatto con i contadini analfabeti, sfruttati e privi di diritti, sentì di poter dare un contributo alla loro libertà. E continuò a farlo per vent’anni, prima da solo e poi con gruppi di studenti universitari provenienti da tutta Italia, seguendo programmi di cooperazione internazionale tanto rivoluzionari da procurarsi, infine, accuse di sovversione e guevarismo che gli impedirono di proseguire oltre il suo progetto.

Manzi diceva già più di cinquant’anni fa ciò che adesso si vorrebbe far rappresentare ad un tratto di inchiostro verde: l’importanza di stimolare, di provocare, di sollecitare la crescita e le potenzialità intellettuali degli studenti. “La scuola ha bisogno di rinnovarsi – scriveva - Deve diventare una scuola che aiuta lo sviluppo intellettuale dell'individuo, una scuola di pensiero, capace di sollecitare lo sviluppo di tutte le capacità intellettive.”

È evidente che a tanto non possa bastare il solo uso di una penna, ma rientra tra quei segnali che denunciano l’intuizione di una didattica che sia anch’essa in movimento, dinamica, come cangianti e in movimento sono i ragazzi. Oggi più che mai, sotto la spinta di tantissimi stimoli e di altrettanto vasti cambiamenti politici e sociali.

Giulia Manzi, la figlia del maestro, in un libro intitolato “Il tempo non basta mai”, ha rielaborato una lunga intervista al padre. Significativa, per comprendere la mente innovativa e rivoluzionaria di quel grande uomo – che è stato anche un grande scrittore - è questa sua affermazione “Perché affronto certi temi? In questo caso la risposta è più facile: voglio far sorgere nei giovani la coscienza dei problemi (coscienza, non solo conoscenza), far sapere loro che esistono certi problemi e che ognuno di noi è chiamato a risolverli. In fondo scrivo perché sono un rivoluzionario, inteso nel senso profondo della parola. Per cambiare, per migliorare, per vivere pensando sempre che l’altro sono io e agendo di conseguenza, occorre essere continuamente in lotta, continuamente in rivolta contro le abitudini che generano la passività, la stupidità, l’egoismo. La rivoluzione è una perpetua sfida alle incrostazioni dell’abitudine, all’insolenza dell’autorità incontestata, alla compiacente idolizzazione di sé e dei miti imposti dai mezzi di informazione. Per questo la rivoluzione deve essere un evento normale, un continuo rinnovamento, un continuo riflettere e fare, discutere e fare. Gli altri sono io.

Andrebbe sottolineata tutta in verde.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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