Nel regno animale l’uomo è collocato al vertice delle specie, in quanto dotato di ragione: è la prima lezione che si apprende da bambini, quando ci si approccia allo studio delle scienze. Dallo stesso insegnamento ma, soprattutto, sulla scorta dell’esperienza che si matura più tardi, si estrae poi un altro dato incontrovertibile: l’uomo è anche un essere estremamente adattabile e se ciò, dal punto di vista evolutivo, gli ha impedito di estinguersi come specie, dal punto di vista esistenziale è quanto gli consente tuttora di assecondare tendenze o alterare le proprie percezioni.
È il pensiero che mi è venuto in mente soffermandomi sullo straordinario cambiamento che in questi ultimi anni ha subito il linguaggio, tanto nel suo significante che nel suo significato.
L’esempio più eclatante – ma anche più banale, se vogliamo - può rintracciarsi in quella inversione di senso subita da alcune espressioni durante questa parentesi temporale di pandemia, che pare aver ufficializzato e consolidato un vero e proprio regime o, meglio, un’“abitudine” – appunto! - al contrario. Mi riferisco ai tanti termini che hanno assunto significato totalmente opposto a quello originariamente declinato, sovvertendo il loro “risultato” pur mantenendo inalterata la “forma”, come si potrebbe dire parafrasando la regola grammaticale dei “nomi sovrabbondanti”.
Difatti il capovolgimento più evidente introdotto e metabolizzato nel lessico comune è quello che riguarda aggettivi ricorrenti quali - se pensiamo, per esempio, all’esito d’un tampone - “negativo” o “positivo”, il cui significato ha finito per invertirsi, un po’ come avviene con il “no” e il “si” di un referendum.
Di conseguenza, anche il “sentire” che si associa a quelle espressioni è cambiato: il negativo è ciò che fa tirare un sospiro di sollievo; il positivo è ciò che desta preoccupazione: esattamente il contrario di ciò che, nella comune accezione, esse hanno sempre indicato.
E, ancora, l’idea di sicurezza e protezione si associa più alla “distanza” (al “da remoto” ormai tanto in voga) che non alla “presenza”; il pericolo si annida nel gruppo, nella folla, che non sono più ambito di scambio e confronto ma rischiosi “assembramenti”, ricettacolo di virus e contagio; per contro, l’isolamento e la solitudine non rappresentano alienazione ma sicurezza; toccarsi è vietato: torna ad essere un tabù, come lo era ai tempi in cui persino scoprire una caviglia era considerato scandalo, figurarsi una carezza o un bacio!
La pandemia è forse l’esempio più eclatante, ma, in realtà, la tendenza umana ad adattarsi a varianti necessitate da nuovi contesti, visioni o modi di pensare è ben più ampia e, talvolta, persino sconcertante, se dettata più dal servilismo ideologico che non dalla ragionata convinzione.
E’ quanto mi suggerisce la polemica sorta intorno alla petizione lanciata qualche giorno fa, su Change.org, da un docente, ordinario di Linguistica italiana all’Università di Cagliari, contro l’uso dello schwa, la “e” rovesciata (ecco che di un altro contrario si tratta!) che pare stia prendendo piede e che in molti asseriscono trattarsi di un segno “inclusivo”, con cui si uniforma il genere delle parole sganciandole dalla necessità di trasformarle (poeta/poetessa) o dettagliarle con un diverso articolo (il/la giudice) al fine di adattarle al maschile o al femminile, rendendole perciò appropriate anche all’”incerta sessualità”.
Tutto è nato da un documento redatto dal MIUR, un verbale relativo alla «Procedura di conseguimento dell’abilitazione scientifica nazionale di professorə universitario di prima e seconda fascia», talmente zeppo di “ə” e di “3” (schwa lungo) in finale d’ogni attributo che possa riferirsi a maschi, femmine e non binari, che, se fosse stato scritto con una vecchia Olivetti, avrebbe fatto pensare ad un tasto inceppato.
Scrive il promotore dell’iniziativa: «Siamo di fronte a una pericolosa deriva, spacciata per anelito d'inclusività da incompetenti in materia linguistica, che vorrebbe riformare l'italiano a suon di schwa. I promotori dell'ennesima follia, bandita sotto le insegne del politicamente corretto, pur consapevoli che l'uso della "e" rovesciata" non si potrebbe mai applicare alla lingua italiana in modo sistematico, predicano regole inaccettabili, col rischio di arrecare seri danni anche a carico di chi soffre di dislessia e di altre patologie neuroatipiche.…»; e ancora: «Lo schwa e altri simboli (slash, asterischi, chioccioline, ecc.), oppure specifici suoni (come la "u" in "Caru tuttu", per "Cari tutti, care tutte"), che si vorrebbe introdurre a modificare l'uso linguistico italiano corrente, non sono motivati da reali richieste di cambiamento. Sono invece il frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell'inclusività...»
In tanti, tra linguisti ed intellettuali, hanno dato sostegno all’iniziativa, sottoscrivendola e recensendola, condannando l’ennesima ipocrisia con cui vuol assegnarsi alla “forma” il ruolo di quell’’apparenza’ con cui spesso si inganna una diversa ‘sostanza’.
All’opposto, i sostenitori del “contro-appello” li hanno accusati di voler negare l’identità di genere, strumentalizzando a tal fine una crociata a difesa della purezza della lingua, e di voler ostacolare un potente segnale di inclusione.
A costoro evidentemente non è ben chiaro che è invece proprio ricorrendo a sottolineature così evidenti che si accentua la diversità.
Mutatis mutandis, è un po’ quello che è avvenuto con la nota congiunta MIUR_Ministero della Sanità dello scorso 21 gennaio che, nella convinzione – evidentemente - di favorire gli allievi con disabilità, prevedendo che essi possano continuare ad andare a scuola in presenza per essere seguiti dai loro insegnanti di sostegno anche quando il resto della classe è in DAD, ha finito di fatto per ribadirla la loro diversità, prendendo uno scivolone che di colpo è parso aver vanificato la lunga e sofferta battaglia combattuta per eliminare le classi differenziali in cui un tempo venivano relegati tutti gli ‘alunni handicappati’.
Per tornare alla questione lessicale, basterebbe invece ricordare che la nostra lingua è diretta discendente del latino, che, come noto, prevedeva oltre ai nomi di genere maschile e femminile, anche quelli di genere neutro, che, pur senza alterazioni fonetiche o di grafemi, risultavano adatti a comprendere qualunque connotazione di genere: niente di più tremendamente attuale per una lingua così antica. Perché dunque rinunciare ad una tanto preziosa eredità?
Teniamoci i nostri lemmi plurivalenti che da quella matrice sono derivati, senza dover necessariamente straziare la lingua: “nomi di genere comune” li definisce la nostra grammatica, e penso che possa bastare.