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Uomini che uccidono donne

Autore: Ester Annetta
"L'arcano della forma di merce consiste dunque semplicemente nel fatto che tale forma rimanda agli uomini come in uno specchio i caratteri sociali del loro proprio lavoro trasformati in caratteri oggettivi dei prodotti di quel lavoro, in proprietà sociali naturali di quelle cose e quindi rispecchia anche il rapporto sociale fra produttori e lavoro complessivo come un rapporto sociale di oggetti che esiste al di fuori di essi. Mediante questo quid pro quo i prodotti del lavoro diventano merci, cose sensibilmente sovrasensibili, cioè cose sociali. (…) Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose è soltanto il rapporto sociale determinato fra gli uomini stessi" (Das Kapital, I volume)

È così che Marx, trasponendolo all’ambito filosofico, ha descritto il concetto di “reificazione”, con ciò intendendo, in estrema sintesi, quel processo per cui una persona, o un rapporto sociale, si fanno res, cosa, oggetto e, come tali vengono valorizzati.

Il termine ha tuttavia una portata più generale, che abbraccia diversi ambiti – dalla sociologia all’etica ed alla psicologia – e che, nella sua valenza più negativa, indica ogni comportamento che, violando principi etici o morali (come la dignità e l'integrità psicofisica della persona) si sostanzia in una “strumentalizzazione” della persona, per cui essa viene trattata come un oggetto, una “cosa” (come del resto suggerisce l’etimologia del termine: “res”, cioè cosa + “facere” cioè fare = "rendere cosa"), priva dunque di sensibilità e di vita.

Parto da questa ampia premessa per sviluppare una riflessione sulle ragioni che motivano i continui casi di violenza verso il genere femminile: i maltrattamenti, gli stupri, le violenze ed i femminicidi non sono forse il segnale che la nostra è una società ancora radicalmente pervasa da un’antica idea che riduce la donna a un semplice corpo e, quindi, ad una cosa? E se così è, il corpo femminile non finisce allora per essere percepito dall’uomo non come il corpo di una persona ma come un oggetto da conquistare o distruggere perché da questo può dipendere l’affermazione della propria esistenza di maschio?

Può sembrare un pensiero estremista, mi rendo conto; e tuttavia è quello che meglio può offrire una giustificazione a gesti che spesso non si fermano alla sola, efferata, violenza ma trascendono nell’assurdo accanimento.

È cronaca di questi giorni lo spietato assassinio di Clara Ceccarelli, la donna uccisa dall'ex compagno nel suo negozio nel centro di Genova. L’esame autoptico ha rivelato che il suo corpo è stato straziato da oltre cento coltellate, infertele ovunque: alla testa, alle braccia, al petto, sulla schiena. Un’autentica mattanza, come se l’uomo, infierendo in quel barbaro modo, avesse voluto disintegrare quel corpo, distruggerne la materia, alla stessa maniera con cui avrebbe potuto frantumare in migliaia di pezzi un vaso, un piatto, un qualunque oggetto fragile.

Dal gesto folle di un momento, dal “raptus”, all’abominio il passo è a volte veramente breve, e non dovrebbe essere una comoda scappatoia il ricorso alla formula (spesso davvero abusata) della temporanea infermità di mente del reo per scagionarlo o attenuare un delitto quand’esso si colloca al vertice nella scala delle possibili nefandezze. Spesso, difatti, sono proprio quelli più scellerati i casi in cui si rende più evidente il dominio della volontà e della ragione (la premeditazione non è altro che un disegno consapevole e ragionato!), termini che, notoriamente, valgono a contraddistinguere l’uomo dalla bestia ma che, invece, in quei casi, non sono affatto sinonimo di superiorità; piuttosto pongono l’uomo persino al di sotto della bestia che, si sa, in fondo uccide solo per fame o per difesa.

Quello di Clara, peraltro, non è un caso sporadico; il suo è solo uno dei nomi d’una lista di femminicidi inspiegabilmente già troppo lunga per essere solo all’inizio dell’anno. Undici sono già state, da gennaio ad oggi, le vittime di questa “macabra reificazione”, circa una ogni quattro giorni: Sharon Barni, a Bergamo, l’11 gennaio; Victoria Osagie, a Concordia Sagittaria, il 16 gennaio; Roberta Siragusa, a Caccamo, il 24 gennaio; Teodora Casasanta, a Carmagnola, il 29 gennaio; Sonia Di Maggio, a Specchia Gallone di Minervino di Lecce, il 1° febbraio; Piera Napoli, a Palermo, il 7 febbraio; Luljeta Heshta, a Rozzano, sempre il 7 febbraio; Lidia Peschechera, a Pavia, il 17 febbraio; Clara Ceccarelli, a Genova, il 19 febbraio; Deborah Saltori, a Cortesano di Trento, il 22 febbraio e Rossella Placati, a Bondeno, sempre il 22 febbraio.

Ed è una strage che non si ferma, complice forse la cattività del lockdown che ha esacerbato relazioni già logore, la depressione di chi ha perso il lavoro, l’insicurezza per il futuro...decine di ragioni che tuttavia non possono – non devono – diventare giustificazioni.

La maggior parte di quelle donne erano ex compagne tormentate da uomini che non volevano rassegnarsi all’idea d’essere stati lasciati, d’aver perso quell’”oggetto” di loro proprietà, d’essere stati sostituiti da un altro. Vivevano nell’angoscia di continue minacce, più volte inutilmente denunciate. Clara Ceccarelli aveva persino già pagato la propria cremazione, appena due giorni prima d’essere massacrata, come se temesse che la morte fosse prossima e non volesse lasciare quella tremenda incombenza al suo anziano padre ed al figlio disabile.

Sembra una beffa che tutto questo accada a più di un anno dall’entrata in vigore del c.d. “Codice Rosso”, la legge che ha introdotto nuovi reati e ha perfezionato i meccanismi di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere e che, dunque, avrebbe dovuto fornire strumenti di contrasto più efficaci.

Il punto è che - a dispetto della necessità di intervenire prontamente e dell’effetto deterrente che un tale pronto intervento comporterebbe sugli autori delle violenze – il nostro sistema, come sempre, s’inceppa: troppe volte le donne vengono rimandate a casa dopo aver segnalato alle forze dell'ordine situazioni di violenza, maltrattamenti o stalking, con la promessa di un “richiamo” che, o non viene fatto o è talmente blando da risultare inefficace; troppo spesso quelle donne non vengono credute o la loro denuncia, il loro grido d’aiuto, vengono sottovalutati.

Allora è forse tempo di cambiare passo; è tempo che le forze dell'ordine, le procure, gli operatori socio-sanitari comincino a non trascurare i segnali, agiscano con maggiore incisività e con più tempestività e, soprattutto, seguano una linea di condotta comune, così che non si aggiunga un ulteriore discrimine a vicende già di per sé marchiate di discriminazione né si incoraggi il mai finito raffronto tra ambienti, contesti ed istituzioni basato spesso sul pregiudizio che contrappone un Nord efficiente ad un Sud ritardato.

Solo così tante vittime potranno essere messe in sicurezza e salvate, impedendo il diffondersi di una “pandemia di femminicidi” che non è meno grave di quella virale.

Nel frattempo sarebbe anche opportuno agire sulla cultura – già a partire dalla scuole - per demolire quelle convinzioni (non sempre dichiarate eppure radicate) e quegli stereotipi che tendono ancora oggi, nel terzo millennio, a considerare la donna non ancora affrancata da antichi retaggi, essere inferiore e, infine, “res”.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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