9 novembre 2011

Nessun favoreggiamento sul posto di lavoro

Possibile dichiarare il falso solo per salvaguardare il posto di lavoro

Autore: Redazione Fiscal Focus
Premessa – Il Tribunale di Bergamo, con sentenza emessa il 17 ottobre 2011, ha stabilito che non comporta favoreggiamento personale, sulla base dell’articolo 378 del codice penale, il lavoratore che, per timore di perdere il proprio posto di lavoro, fornisce false dichiarazioni che aiutano il datore di lavoro ad eludere le indagini su di sé. Ciò è quanto stabilito dalla sesta sezione penale della Corte di Cassazione n. 37398.

Il fatto – In pratica, il fatto consiste in un infortunio occorso ad un lavoratore straniero, dove i suoi colleghi, per paura di essere coinvolti in un’incriminazione o nei peggiori dei casi per non perdere il posto di lavoro, hanno esplicitamente negato alla Polizia giudiziaria l’infortunio patito al proprio collega e in ogni caso che nessun infortunio era mai avvenuto nel cantiere.

La sentenza di I° grado – Una volta emersa la condotta favoreggiatrice, a causa delle mendaci informazioni dichiarati da entrambi i lavoratori all’ASL provinciale di Bergamo, è scattata l’immediatamente incriminazione per favoreggiamento nei confronti degli imputati. La sentenza di I° grado, tuttavia, proscioglie gli imputati, ritenendo applicabile nelle loro rispettive condotte la causa di non punibilità prevista dall’art. 384 c. 1 del codice penale. Infatti, dalla disposizione appena citata è possibile dedurre che anche in caso di erronea putatività della sua sussistenza, avendo gli imputati commesso il fatto perché costretti dalla necessità di salvare se stessi da un grave e inevitabile danno alla libertà, comunque ritenendo in subordine mancare nei loro contegni il dolo dell’ascritto favoreggiamento personale. A ben vedere, le dichiarazioni degli imputati hanno sì aiutato di fatto il datore di lavoro ad eludere le indagini nei suoi confronti, ma gli imputati hanno reso le dichiarazioni false al fine di salvare se stessi da un probabile procedimento penale e in ogni caso in assenza dell'elemento psicologico del reato contestato.

La sentenza di II° grado - Al contrario, la Corte d’Appello, interpretando diversamente la norma, condanna gli imputati, i quali ricorrono successivamente in Cassazione, sostenendo un’erronea applicazione della legge. Successivamente, intervengono i giudici di legittimità, i quali sostengono che per applicare correttamente la disposizione occorre confrontare gli interessi che si fronteggiano. Ovvero, da un lato, l’interesse dello Stato a punire l’azione di favoreggiamento personale e, dall’altro lato, l’interesse, emergente nel caso specifico, dell’individuo. Siccome tale ultimo interesse risulti essere di “libertà” vale la regola della non punibilità.

La sentenza di III° grado – La sentenza della Corte di Cassazione si presenta su due livelli, uno per ciascun lavoratore imputato. Per quanto riguarda il primo lavoratore, i giudici della Cassazione applicano il criterio appena citato, ritenendo, sulla base del giudizio di appello, che egli abbia detto il falso per salvaguardare la propria libertà, potendo altrimenti essere incriminato per altro reato, come per esempio omissione di soccorso. Dunque, la disposizione di cui all’art. 384, c. 1, si applica e la decisione di II° grado è da considerare come falsa applicazione della norma. Per quanto concerne la situazione del secondo lavoratore, la situazione è più complessa, in quanto: da un lato, vi è l’interesse statuale a punire il favoreggiamento e, dall’altro lato, emerge l’interesse dell’individuo a “non dire il vero” per non perdere il posto di lavoro. A tal fine, la Cassazione s’interroga se l’interesse al lavoro ha un valore giuridico pari a quello che ha l’amministrazione della giustizia a non essere sviata.

Conclusioni – Per rispondere al quesito posto, innanzitutto, la Cassazione afferma che tale diritto va comunque valutato caso per caso dai giudici di merito, per valutare se il dire la verità avrebbe potuto o meno compromettere la situazione esistenziale e lavorativa del lavoratore. Al riguardo, i giudici della Cassazione rispondono in modo affermativo, in quanto il diritto al lavoro è fonte di esplicazione della “libertà” personale e, quindi, rientra nell’applicazione dell’articolo 384, c. 1. In definitiva, si deve far attenzione a non intendere la sentenza come un esempio a dire il falso, ma comprensione solo verso chi lo fa per salvaguardare, effettivamente, la propria libertà personale.
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