Quando l’ho conosciuto, Samo aveva quattordici anni.
Era da poco arrivato in Italia, da un qualche posto del Bangladesh, e non conosceva nemmeno una parola di italiano.
- Art. 38 D. L.vo n. 286/1998 (Testo Unico sull’immigrazione) - Art. 45, commi 1, 2, DPR 394/1999 (Regolamento di attuazione del Testo Unici sull’immigrazione) -
Secondo le previsioni della normativa italiana - solerte e precisa nel formulare interventi completissimi e programmi bellissimi, ma destinati perlopiù a rimanere sulla carta - era stato prontamente iscritto a scuola, giacché “i minori stranieri presenti sul territorio nazionale hanno diritto all'istruzione indipendentemente dalla regolarità della posizione in ordine al loro soggiorno, nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani” e “sono soggetti all’obbligo scolastico; ad essi si applicano tutte le disposizioni vigenti in materia di diritto all'istruzione, di accesso ai servizi educativi, di partecipazione alla vita della comunità scolastica.”
Era stato perciò inserito – ad anno scolastico già iniziato - in una prima classe di istituto tecnico informatico, corrispondente, dunque, alla sua età anagrafica, senza evidentemente tener conto di “competenze, abilità e livelli di preparazione” e della sua “scolarizzazione pregressa”; più probabilmente perché era l’unica poco numerosa dove ci fosse ancora posto.
- Art. 34 Costituzione, comma 3 (I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi) –
Si intuiva che Samo fosse un ragazzo intelligente e capace – “sveglio”, insomma, come si dice con formula efficace – e ciò appariva chiaro in particolare dalla dimestichezza con cui riusciva ad eseguire gli esercizi di matematica, tanto più che, non capendo alcunché delle spiegazioni, si limitava a seguire i passaggi che l’insegnante riportava sulla lavagna.
- Art. 45, commi 4, DPR 394/1999 –
In quella classe Samo era l’unico NAI (NeoArrivato in Italia), uno “straniero di prima generazione” ancora in debito d’adattamento ad una terra, ad una vita e ad una cultura nuove. C’erano, sì, altri ragazzi stranieri, ma perlopiù erano di seconda generazione o impiantati da così tanto tempo in Italia da averne acquisito correttamente non solo la lingua ma perfino gli accenti e le cadenze.
Sarebbe stato necessario che, in relazione ai suoi livelli di competenza, fossero adattati i programmi d’insegnamento, mediante “specifici interventi individualizzati o per gruppi di alunni per facilitare l'apprendimento della lingua italiana, utilizzando, ove possibile, le risorse professionali della scuola. Il consolidamento della conoscenza e della pratica della lingua italiana avrebbe potuto essere realizzato altresì “mediante l'attivazione di corsi intensivi di lingua italiana sulla base di specifici progetti, anche nell'ambito delle attività aggiuntive di insegnamento per l'arricchimento dell'offerta formativa”.
- Dir. Min. 27 dicembre 2012, Cir. Min. n. 8/2013, Nota MIUR n. 2563/2013, Nota MIUR n. 4233/2014 (Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri) –
Del resto, sempre in virtù della tanto osannata attenzione delle nostre istituzioni alle necessità educative degli studenti e, soprattutto, all’inclusione, la “non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse” viene riconosciuta tra quei Bisogni Educativi Speciali che consentono l’adozione di un PDP (Piano Didattico Personalizzato) attraverso cui agevolare il percorso didattico degli studenti stranieri, passando prioritariamente per interventi relativi all’apprendimento della lingua.
Vero è, però, che nella sostanza ben poco corrisponda a ciò che è profilato da tanti bei programmi, tante dettagliate norme (a volte pure ridondanti) e sigle dalle gradevoli sonorità.
Samo nella realtà dei fatti era stato lasciato abbandonato a sé stesso, col solo palliativo di quel po' di buon senso e di compassione da cui qualche insegnante di tanto in tanto si lasciava addolcire, concedendogli di utilizzare le sintesi ed il materiale semplificato che l’insegnante di sostegno presente in classe utilizzava per gli alunni con disabilità.
Ma anche così non era facile per lui; per quanto potesse essere semplificata la sintesi di un argomento – poniamo – di diritto, cosa mai avrebbe potuto comprendere Samo, senza un adeguato aiuto, di termini giuridici o espressioni tecniche se già faticava a comprendere il linguaggio comune?
A tanto disagio si aggiungeva inoltre anche la sua difficoltà di relazionarsi con i compagni, eccetto un paio di buona volontà che ogni tanto provavano a conversare con lui in un inglese tuttavia poco fluido per entrambi. Perciò se ne stava perlopiù da solo, in disparte, chiuso in quel suo inguaribile silenzio; gli occhi buoni – d’un nero profondo e pungente – che scrutavano intorno, attenti a catturare un qualunque segnale che sapesse d’accoglienza; il bel volto, dai lineamenti marcati, incupito dalla tristezza.
Quando, a fine anno, si era trattato di tirare le somme, per Samo il verdetto era stato inappellabile: bocciato.
A nulla erano valse le mie proteste e quelle di una soltanto degli altri insegnanti: non era onesto né corretto che fosse Samo a dover pagare le mancanze d’una scuola che nessun intervento d’aiuto (neppure linguistico) aveva messo in campo nei suoi confronti. Tanto più perché appariva evidente il diverso riguardo usato per alunni che, sebbene non meritevoli, erano stati tuttavia graziati per il timore di genitori che, si sa, hanno imparato che con la minaccia di ricorsi e azioni legali possono tenere sotto scacco un’intera scuola, dalla base ai vertici. Nel caso di Samo analogo timore non poteva sussistere, perché, come lui, anche i suoi genitori non capivano la lingua, le norme e nemmeno l’ingiustizia.
L’anno successivo, com’era immaginabile, Samo non era più tornato a scuola.
Da allora sono passati circa quattro anni.
Qualche sera fa l’ho rivisto.
Da un po’ di tempo, le volte in cui mi è capitato di uscire la sera, avevo notato una dozzina di ragazzi radunati alla fine della strada dove abito. È una strada silenziosa e tranquilla, defilata da quelle più trafficate che le corrono parallele, e perciò può sembrare adatta per appuntamenti che non diano nell’occhio. Avevo notato trattarsi di ragazzi della stessa etnia di Samo e, da lontano, avevo anche avuto l’impressione che fosse tra loro. Ne ho avuto però la conferma solo quando, di ritorno da un mio turno di camminata col cane di casa, voltando l’angolo, me lo sono ritrovato di fronte, faccia a faccia. L’ho salutato con l’entusiasmo che di solito si riserva a chi si ha piacere di rivedere, chiedendogli come stesse. Lui mi ha restituito lo sguardo, indugiando come per mettere a fuoco un ricordo, e poi, visibilmente imbarazzato, ha risposto al mio saluto.
Gli altri ragazzi osservavano la scena in silenzio, scambiandosi occhiate l’un l’altro e poi guardando Samo. Gli ho quindi chiesto se andasse ancora a scuola e dove; dopo un breve silenzio, come se stesse ragionando sulla risposta da dare, Samo evasivamente ha detto: “Jobs”.
Lavori.
Avrei voluto chiedergli dove lavorasse e di che genere di lavori si trattasse, ma la percezione della sua inquietudine mi ha dissuaso, e perciò, salutatolo, ho proseguito per la mia strada.
La mia mente però ha continuato ad arrovellarsi.
Probabilmente non erano “buone” le ragioni per cui quel gruppo di ragazzi fosse radunato lì, ad un’ora che prelude ad una lunga notte, ed avesse avuto un atteggiamento di allerta e circospezione quando una passante aveva rivolto la parola ad uno di loro, riconoscendolo.
Ho immaginato che Samo, il ragazzo mite dagli occhi buoni, fosse finito in un giro di persone sbagliate, che la sua vita avesse preso una deriva incorreggibile, che quei “jobs” che si era ritrovato a fare non fossero lavori puliti, spinto dalla necessità di riscattarsi, di avere un suo ruolo qualunque – finanche marcio – in un contesto straniero e ostile che tanto poco accogliente si era dimostrato verso i suoi bisogni e la fragilità della sua adolescenza.
E per me, e per tutti quelli che non hanno potuto o voluto far niente per lui e per tanti altri Samo, mi sono sentita imperdonabilmente colpevole.