4 febbraio 2023

Dei delitti e delle pene

Autore: Ester Annetta
"Non è l'intensione (l’intensità) della pena che fa il maggior effetto sull'animo umano, ma l'estensione di essa; perché la nostra sensibilità è più facilmente e stabilmente mossa da minime ma replicate impressioni che dà un forte ma passeggero movimento. L'impero dell'abitudine è universale sopra ogni essere che sente, e come l'uomo parla e cammina e procacciasi i suoi bisogni col di lei aiuto, così l'idee morali non si stampano nella mente che per durevoli ed iterate percosse."

Così scrisse qualche secolo fa Cesare Beccaria nel suo famoso saggio (da cui mutuo il titolo per questa mia riflessione) in cui, con spirito illuminista, affrontava il tema dell’accertamento dei delitti e dell’adeguatezza delle pene.

È un argomento che pare essere tuttora di grande attualità, specie alla luce dei dibattiti e degli sproloqui accesisi in questi ultimi giorni attorno al caso dell’anarchico Alfredo Cospito e al regime del 41bis.

Prima, però, di sbilanciarsi in giudizi sull’opportunità o meno del mantenimento della misura detentiva adottata nei confronti di Cospito, varrebbe la pena soffermarsi sulle caratteristiche e l’esatto contenuto di quella norma che sin dal suo apparire è stata rinominata con l’espressione “carcere duro”.

Va anzitutto datato il contesto che al 41 bis ha dato i natali ed evidenziato la necessità di adattare ai tempi ed alle situazioni l’ormai vetusta Legge sull’Ordinamento Penitenziario, risalente al 1975.

La norma è stata infatti introdotta con un D.L. del 1992 (D.L. n.306/1992, convertito in L. 356/1992, poi riveduta nel 2002 e nel 2009) a seguito delle stragi di Capaci e Via D’Ameilo, con l’intento di aggravare la condizione di quei detenuti più pericolosi che, sottoposti a pena detentiva “ordinaria”, erano in grado anche dal carcere di mantenere vivi i legami con le associazioni criminali di appartenenza – la mafia, nello specifico – e ad esercitare il loro ruolo di comando, continuando ad impartire ordini e direttive.

Essa ha dunque affidato al Ministro della Giustizia la facoltà di sospendere l'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti standard previsti dall’ordinamento penitenziario ove si ravvisino ragioni di ordine e di sicurezza, sottoponendo perciò il detenuto a restrizioni adeguate a ridurre le occasioni di contatto con l’esterno o con gli altri detenuti, così da impedirgli i collegamenti con le associazioni, le organizzazioni o i movimenti di riferimento.

Il punto su cui ciclicamente torna a discutersi è però se, ferma restando la legittimità dello scopo del regime detentivo “speciale” in presenza di soggetti di cui sia stata accertata la pericolosità, sia altrettanto legittima la misura delle restrizioni che ne derivano, in considerazione del rischio che esse vadano a comprimere i diritti fondamentali della persona, a dispetto della loro tutela che, viceversa, va garantita anche quando si ha a che fare con spietati criminali.

Il fulcro della questione è allora proprio questo: quali sono le restrizioni ammissibili e compatibili sia con le nostre norme Costituzionali (in specie l’art. 27 che impone che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”) che con i principi dettati dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali?

Se il regime detentivo speciale comporta l’adozione di restrizioni necessarie a soddisfare “motivi di ordine e di sicurezza pubblica” (comma 2) è allora evidente che debba trattarsi di misure che con quella finalità abbiano una relazione funzionale. Ciò significa che non necessariamente si deve trattare di limitazioni e punizioni che offendono la dignità della persona e che non hanno alcuna giustificazione logica.

Del resto lo stesso legislatore al comma 2quater dell’art. 41 ha tipizzato le restrizioni applicabili, identificandole con specifiche limitazioni di comunicazione inflitte ai detenuti sia all’interno che all’esterno dell’istituto di reclusione: limitazioni nei colloqui, nelle telefonate (con riguardo al numero, alle modalità, alla durata) e nella corrispondenza; limitazione delle somme, dei beni e degli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno; esclusione dalle rappresentanze dei detenuti e degli internati e limitazione della permanenza all’aperto.

Tuttavia nemmeno tale specifica è esente da rilievi, dal momento che parrebbe vanificata dalla previsione contenuta nella lettera a) dello stesso comma, che consente altresì la generica “adozione di misure di elevata sicurezza interna ed esterna” senza fornire parametri.

Ciò posto, allora la conclusione che può trarsi – anche in risposta alle polemiche di questi giorni circa l’opportunità di abolire o meno il regime del 41bis – è che non è necessario eliminare la norma, ma basterebbe semplicemente meglio disciplinarne l’applicazione, così ribadendosi quella distinzione già tracciata da Beccaria tra “intensione” ed “estensione” della pena.

In tale ottica potrebbe dunque avere un’altra chiave di lettura anche la questione sollevatosi attorno alla legittimità dell’applicazione del 41 bis ad Alfredo Comito, come pure –mantenendo la stessa logica proporzionalità tra ciò che è la funzione della pena e l’imprescindibile necessità di tutelare la dignità ed i diritti umani – potrebbe rileggersi la questione sull’ergastolo ostativo. A tal ultimo proposito, va difatti osservato che l'ostatività presuppone un’idea di irredimibilità del condannato, l’impossibilità di scinderlo dal crimine che ha commesso e, dunque, quasi l’identificazione dell’uno nell’altro, in aperto ed evidente contrasto con quella funzione rieducativa della pena voluta invece dalla nostra Costituzione.

Certo, è innegabile che di fronte all’efferatezza di certi delitti a prevalere sia sempre una sorta di sentimento di vendetta per cui si sarebbe portati a “chiudere le sbarre e gettar via la chiave”.

Ma le norme vanno lette al di là della tentazione emotiva che le vorrebbe calzate addosso al soggetto specifico e valutate con la massima oggettività.

Ancora ina volta con Beccaria, dunque: "perché ogni pena non sia una violenza di uno o di molti contro un privato cittadino, dev'essere essenzialmente pubblica, pronta, necessaria, la minima delle possibili nelle date circostanze, proporzionata a delitti, dettata dalle leggi"; e le leggi, a loro volta devono improntarsi al rispetto di valori e diritti che restano uguali ed intangibili per ogni individuo, nel rispetto della sua dignità di essere umano, a prescindere dalle azioni che ha commesso.
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