I numeri sono ormai quelli di un vero allarme sociale: dall’inizio del 2024 sono 99 le donne vittime di femminicidio, quasi 3.000 le violenze sessuali registrate nei primi sei mesi dell’anno, 700 i casi accertati di “revenge porn”, la condivisione non consensuale di immagini e video intimi, 33mila le chiamate ricevute dal numero antiviolenza (1522) e 20mila le donne che hanno intrapreso percorsi di supporto e aiuto. A tutto questo, si aggiunge un dato Istat altrettanto inquietante: nel corso della propria vita, il 31,5% delle donne ha subito qualche forma di violenza fisica o sessuale.
Una violenza a senso unico, visto che dall’inizio dell’anno gli uomini vittime del partner sono soltanto 7, che usa strade diverse e subdole per diventare quotidianità. A quella fisica si affianca spesso quella economica, una sudditanza che costringe troppe donne a sopportare la violenza pur di non trascinare i propri figli nella spirale della povertà.
Nel giorno in cui si celebra in tutto il mondo la “Giornata Internazionale contro la violenza sulle donne”, oltre alle solite parole di circostanza che riempiono talk-show e inchieste, val la pena andare sul concreto, ricordando che oltre al “Codice Rosso”, la legge introdotta nel 2019 che punisce il mancato rispetto di ordini di allontanamento e i divieti di avvicinamento, lo scorso giugno è entrato in vigore il “Reddito di libertà”, misura di cui si parla ancora molto poco che consiste in un aiuto pari a 400 euro mensili concessi in unica soluzione per un massimo di 12 mesi e assegnati ai casi seguiti dai centri antiviolenza e dai servizi sociali, con l’obiettivo di contribuire a sostenerne l’autonomia di cittadine italiane, comunitarie o extracomunitarie in possesso del permesso di soggiorno.
A questo si aggiunge l’esonero ai datori di lavoro privati che assumono donne disoccupate titolari del reddito, che spetta per le assunzioni a tempo indeterminato per 24 mesi, e quelle a tempo determinato per 12 mesi, ma riguarda anche le trasformazioni a tempo indeterminato di un rapporto a termine, agevolato o meno, per 18 mesi a partire dalla data dell’assunzione a tempo determinato, ma anche in caso di part-time e di rapporti di lavoro subordinato in attuazione del vincolo associativo stretto con una cooperativa di lavoro.
L’agevolazione vale per le assunzioni e/o trasformazioni che rientrano nel triennio 2024-2026 ed esonera il datore di lavoro dal versamento del 100% dei complessivi contributi previdenziali nel limite massimo di 8mila euro annui, parametrato e applicato su base mensile, al netto dell’aliquota di computo delle prestazioni pensionistiche.
“Uno dei principali ostacoli per l’emancipazione da una situazione di violenza risiede ancora, drammaticamente, nella possibilità di disporre di un reddito – spiega Azzurra Rinaldi, direttrice della School of Gender Economics dell'Università degli Studi di Roma Unitelma Sapienza - il lavoro è il principale strumento di libertà per tutte le donne ed è particolarmente necessario per quelle che escono da una relazione violenta e che, anche a causa della segregazione che spesso queste relazioni comportano, rischiano di incontrare difficoltà di reinserimento lavorativo che diversamente potrebbero diventare insormontabili”.
Peccato che, come denunciato da diversi quotidiani, i fondi per il reddito di libertà 2024 siano stati bloccati per oltre dieci mesi: un’attesa che l’estate scorsa ha provocato le proteste di Centri antiviolenza e Comuni, ma che ancora non si è conclusa. “Il decreto di riparto dei fondi – spiegano dal ministero della Famiglia - è stato firmato da Eugenia Roccella. Ora sono in corso le procedure di formalizzazione”.
“Facciamo un appello perché si intervenga al più presto - replica Mariangela Zanni, della rete dei centri antiviolenza D.I.Re. - noi abbiamo continuato a inoltrare le domande nella speranza che prima o poi vengano accolte. Lo stallo crea un grande clima di sfiducia nelle donne: le loro vite vanno avanti e non si possono congelare solo perché il governo non sblocca i fondi”.
Una parte fondamentale della risposta alla piaga della violenza sulle donne, secondo gli esperti, è partire dalla formazione del personale, che sia dotato di strumenti per riconoscere i segnali di violenza domestica e capire come rispondere in maniera appropriata attraverso canali locali e nazionali che possano supportare le vittime. Ma senza mai dimenticare un fondamentale supporto psicologico sviluppando collaborazioni con enti e associazioni specializzate nella lotta contro la violenza domestica per offrire alle vittime un accesso più rapido a risorse come rifugi, assistenza legale e supporto.
“La violenza domestica è una piaga sociale che colpisce milioni di persone in tutto il mondo, molte delle quali sono donne che cercano di conciliare il lavoro con una situazione familiare difficile – spiega Elena Falconi, Senior HR director Southern Europe di “ADP Italia” - le aziende, come parte integrante della società, hanno il dovere morale e la possibilità concreta di aiutare i propri dipendenti vittime di violenza, sviluppando politiche specifiche che affrontino direttamente il problema. Questo include la stesura di linee guida dettagliate su come identificare i segnali di abuso, come rispondere alle richieste di aiuto e quali risorse mettere a disposizione delle vittime. Tali politiche devono essere ben comunicate a tutti i dipendenti e integrate nei regolamenti aziendali”.