Il loro avvocato l’ha definita “una sentenza bellissima”; e ad onor del vero lo è, se si considerano tanto la ricchezza di argomentazioni impiegate quanto il suo contenuto, che a tratti pare quasi più improntato a ragioni di affettività che di diritto.
La vicenda è quella di due donne - una coppia – l’una madre naturale, l’altra adottiva di una bambina nata in seno alla loro unione e per la quale, nel 2019, avevano fatto richiesta di rilascio della Carta d’Identità Elettronica valida per l’espatrio presso il Comune di Roma.
Espressamente le due donne avevano domandato che sul documento fossero indicati i loro nominativi con la qualifica di «madre» e «madre» o, in alternativa, con la dicitura “neutra” di «genitore» per entrambe. Ma gli Uffici del Comune avevano evidenziato l’impossibilità di accogliere la richiesta in ragione delle specifiche tecniche del programma informatico di emissione della C.I.E. che, in conformità a quanto disposto dal decreto del Ministro dell’Interno del 31/01/2019, prevede esclusivamente la dicitura «padre» e «madre» per la compilazione dei campi contenenti i nominativi dei genitori.
Il suddetto decreto era stato perciò impugnato dalla coppia dinanzi al T.A.R. competente per plurimi motivi di illegittimità. Il giudice amministrativo aveva tuttavia declinato la propria giurisdizione sul presupposto che il ricorso avesse ad oggetto la tutela di diritti soggettivi perfetti, azionabili dinanzi al giudice ordinario, e che quest’ultimo disponesse di idonei strumenti processuali per emettere una decisione utile a detta tutela, in particolare mediante la disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo.
Il giudizio era stato quindi successivamente riassunto dinanzi al Tribunale Ordinario di Roma, XVIII Sezione Civile (Sezione specializzata in materia di diritti della persona e immigrazione), che, con un’ordinanza dello scorso 9 settembre, ha accolto il ricorso delle due mamme sottolineando tra l’altro, in maniera molto puntuale ed esaustiva, sia profili di incostituzionalità che di contrasto alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) del citato decreto.
Secondo il Tribunale la questione verte sull’esistenza o meno di “un diritto delle due donne giuridicamente riconosciute come genitrici della bambina (l’una per esserne anche madre naturale, l’altra per averla adottata) a vedersi identificate, nella carta d’identità della figlia, in modo conforme alla loro identità sessuale e di genere, o comunque in termini neutri”, nonché “del diritto della minore stessa ad una corretta rappresentazione della sua situazione familiare, come figlia (naturale e giuridica) di due donne, quindi di due “madri”, o comunque di due “genitori”.”
E posto che sull’esistenza di tali diritti non può nutrirsi alcun serio dubbio, il Tribunale ha rilevato che, per quanto riguarda le due donne “l’indicazione, nel documento d’identità della figlia, di una di esse (che non è la madre biologica né naturale) con una qualifica («padre») difforme dalla sua identità sessuale e di genere, costituirebbe senz’altro un’ingerenza nel suo diritto al rispetto della vita privata e familiare, garantito dall’art. 8 CEDU, priva dei connotati di necessità e proporzionalità che potrebbero giustificarla.”
Il citato articolo 8 dispone espressamente “1. Ogni persona ha diritto al rispetto della propria vita privata e familiare, del proprio domicilio e della propria corrispondenza.
2. Non può esservi ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge e costituisca una misura che, in una società democratica, è necessaria alla sicurezza nazionale, alla pubblica sicurezza, al benessere economico del paese, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute e della morale, o alla protezione dei diritti e delle libertà altrui.”
Il requisito della necessità – osserva il Tribunale - è declinato in termini esaustivi dal secondo comma della predetta disposizione. Escludendo che la fattispecie considerata di certo non mina la sicurezza nazionale, la pubblica sicurezza, il benessere economico del paese, la difesa dell’ordine e la prevenzione dei reati, la protezione della salute e la protezione dei diritti e delle libertà altrui, non resterebbe che invocare la difesa della morale. Ma poiché qui la questione non riguarda il riconoscimento di diritti procreativi non previsti dal nostro ordinamento ma un aspetto formale, “non si vede come il fatto di indicare correttamente, su un documento di riconoscimento, la qualifica di una persona con un termine corrispondente alla sua identità sessuale e di genere (o almeno con un termine neutro) possa portare pregiudizio alla morale pubblica.”
Pertanto, secondo il giudice, un’indicazione con un termine che indichi un ruolo sociale e parentale incongruo rispetto all’identità sessuale e di genere di una delle due genitrici costituirebbe “un’ingerenza nel suo diritto al rispetto della vita privata e familiare vietata dall’art. 8 e, pertanto, una violazione di tale norma”.
Perdipiù – continua ad evidenziare l’ordinanza – anche la nostra Costituzione risulterebbe violata, in particolare l’art. 2, “dovendosi ritenere che una rappresentazione distorta della figura di uno dei genitori (sotto il profilo dell’identità sessuale e di genere e del ruolo sociale e parentale rivestito) costituisca una violazione della dignità personale garantita da tale disposizione.” Perciò, “la falsa rappresentazione del ruolo parentale di una delle due genitrici, in evidente contrasto con la sua identità sessuale e di genere, comporta poi conseguenze (almeno potenziali) rilevanti sia sul piano del rispetto dei diritti garantiti dalla Costituzione, sia sul piano della necessaria applicazione del diritto primario e derivato dell’Unione europea.”
Il Tribunale ricorda peraltro come anche la Cassazione abbia precisato che i termini maternità e paternità si riferiscono a legami biologici di discendenza genetica, mentre il termine genitore è inteso come legame di tipo affettivo e familiare, come capacità e responsabilità di cura del minore, per la realizzazione dei suoi interessi.
Rifacendosi poi al diritto europeo, richiama il regime della libera circolazione degli atti e delle persone a cui gli Stati membri devono adeguarsi attraverso la normativa interna, anche in relazione al rilascio di un documento di identità. E poiché è oramai pacifico, nella giurisprudenza comunitaria, che la relazione tra due omosessuali è compresa nel concetto di "vita familiare", deve considerarsi contraria all'art. 21 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea - che disciplina il diritto di circolazione e soggiorno - qualsiasi disposizione, come quella relativa alla carta di identità del minore, che limita tale libertà.
Secondo il Tribunale la soluzione al problema è "di rispettare i criteri di minimizzazione e di necessità del trattamento dei dati personali, imposti dal regolamento generale sulla protezione dei dati (R.G.P.D.), giacché è la funzione genitoriale esercitata nei confronti della minore che deve emergere dal documento, e che costituisce il fondamento legittimante il trattamento, e non l'indicazione specifica del ruolo parentale specifico sessualmente caratterizzato."
Ha infine richiamato una recente pronuncia della Corte di Giustizia Europea (sent. 14/12/2021) relativa ad un caso ampiamente sovrapponibile a quello di specie, ove riportandosi agli artt. 7 e 24 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE e agli artt. 2 e 7 della Convenzione di New York, è stato sottolineato il divieto di far subire al minore discriminazioni, «comprese quelle basate sull’orientamento sessuale dei suoi genitori». E discriminazione vi sarebbe – a parere del Tribunale- se i minori aventi una relazione parentale (biologico-naturale e/o giuridica) con genitori dello stesso sesso dovessero esibire documenti di identità sui quali i genitori risultano indicati in termini manifestamente falsi e identici a quelli dei minori aventi genitori di sesso opposto. In quest’ultima ipotesi – evidenzia il giudice - non si porrebbe neppure un problema di legittimità costituzionale di un’eventuale disposizione di legge che imponesse, direttamente o indirettamente, l’indicazione di due donne genitrici (o di due uomini genitori) come «padre» e «madre» del minore: una simile legge dovrebbe, infatti, essere direttamente disapplicata dal giudice ordinario per contrasto con la normativa eurounionale. Ed evidentemente analoga sorte deve toccare, ed a fortiori, ad un semplice atto amministrativo non regolamentare.
In conclusione, il Tribunale ha ritenuto che il decreto del Ministro dell’interno del 31/1/2019 – oltre a violare un innumerevole elenco di principî e diritti di fonte costituzionale ed internazionale – è viziato da un evidente eccesso di potere e va dunque disapplicato.
Ha pertanto accolto la richiesta delle ricorrenti di indicare nel documento della figlia la dicitura neutra “genitore”, ordinando al Ministro dell’Interno – e per esso il Sindaco di Roma Capitale, quale ufficiale del Governo – di indicare (apportando al software e/o dell’hardware predisposto per la richiesta, la compilazione, l’emissione e la stampa delle carte d’identità elettroniche le modifiche che si rendessero all’uopo necessarie) le qualifiche “neutre” di «genitore» in corrispondenza dei nomi delle ricorrenti sulla C.I.E. della minore.