Che le prove INVALSI non godano d’un generalizzato gradimento è risaputo.
Lo scopo dei test – che, com’è noto, valutano l'apprendimento in italiano e matematica (cui da qualche anno si è aggiunto quello dell’inglese) degli studenti – è di raccogliere dati generali sull'efficienza del sistema formativo italiano e indicarne le criticità. Ma, se per un verso, tale rilevamento può essere utile al fine di formulare indicazioni operative volte a sanare le inefficienze, per altro verso viene dai più criticata la modalità stessa della rilevazione effettuata, che non terrebbe conto di alcune variabili non oggettivabili né dello sviluppo cognitivo degli studenti, fondandosi viceversa su dati discendenti dall'acquisizione di un nozionismo che non appare in linea con gli obiettivi di crescita personale e personalizzazione che dovrebbero essere propri della scuola moderna.
Ma al di là di tali note considerazioni, che da sempre accompagnano il dibattito sull’utilità o meno di quelle prove, un ulteriore motivo di polemica è sorto nelle ultime settimane riguardo ad una nuova iniziativa varata dall’Istituto di valutazione nazionale: una procedura che permette l’individuazione degli “studenti fragili” che, dunque, perdendo quella condizione di anonimato sinora sempre garantita dai test, diventano chiari destinatari di interventi di recupero specifico e di monitoraggio.
Il tutto all’insaputa dei loro familiari.
Più nel dettaglio, è accaduto che nello scorso mese di ottobre l’INVALSI ha restituito alle scuole - attraverso le varie piattaforme utilizzate per il registro elettronico – degli “indicatori di fragilità” (classificati con livello 1 o 2 o disagio potenziale) che, applicati ai risultati dei test standardizzati effettuati dai singoli studenti negli anni precedenti, permettono di identificare quelli risultati “in condizione di fragilità”.
Difatti i codici loro assegnati in fase di somministrazione dei test possono essere convertirli in nominativi in modo da conoscerne le specifiche identità.
Qual è la ragione di tutto questo? Quantificare i numeri in proporzione ai quali alle 3198 scuole identificate dal D.M. 170 del 24 giugno 2022 – ossia la riforma legata ai fondi del PNRR – verranno destinati i fondi stessi. Più praticamente, dunque: più “fragili” = più soldi.
Già questa semplice equazione basterebbe a lasciar intravedere risvolti opportunistici che probabilmente si commentano da sé.
Ciò che invece è necessario sottolineare sono le tante “irregolarità” che la procedura adottata dall’INVALSI presenta.
Già l’associazione Roars - Return on Academic Research ha prontamente osservato come, dietro lo schermo del “supporto” che si intende dare alla scuola nella “riduzione dei divari” – secondo la missione perseguita nel PNRR – sia stata di fatto realizzata una “profilazione di massa” per “individuare precocemente gli studenti che maggiormente sono esposti ai rischi connessi all’insuccesso scolastico”.
Sempre secondo l’associazione, soltanto per la matematica pare siano circa un milione gli studenti etichettati con il “bollino” di “disagio potenziale”, appartenenti in larga percentuale a precise categorie sociali. Quindi, la “schedatura” INVALSI non solo assegna un’etichetta individuale in funzione di una valutazione algoritmica non controllabile ma – peggio ancora – “si risolve in una classificazione dei poveri, etichettati in massa come “fragili” o “potenzialmente disagiati” e suddivisi nelle caste di livello “due”, “uno” o “zero”".
Altra nota da considerare – stavolta posta in rilievo da alcune sigle sindacali del comparto scuola – il rischio che, in funzione dell’accaparramento dei fondi del PNRR, venga promosso un uso pervasivo dei test standardizzati con l’aberrante conseguenza che essi rischino di diventare lo strumento di riferimento per l’individuazione delle fragilità degli studenti, riducendo in maniera significativa il valore della professionalità dei docenti.
Sempre i sindacati esprimono inoltre perplessità su quanto possano considerarsi attendibili, ai fini dell’attribuzione di un’etichetta di fragilità, i dati INVALSI risultati da test somministrati in anni anche di molto precedenti a quelli dalla classe attualmente frequentata dallo studente che li abbia falliti.
Il Presidente dell’INVALSI parrebbe aver replicato duramente alle critiche circa la “schedatura” che l’Istituto starebbe mettendo in atto affermando: “Nessuna etichettatura, nessuna certificazione di fragilità. Semplicemente, la scuola chiede ad Invalsi di attaccare il valore di questo indicatore a ciascuna scheda studente, sempre in forma anonima, e il dirigente ne fa quello che ritiene più opportuno”.
Già qui verrebbe da domandarsi quale differenza ci sia tra un’etichettatura e “attaccare il valore di un indicatore (di fragilità) alla scheda dello studente” e, ancor più, come si faccia ad attaccare l’indicatore a ciascuna scheda studente, ma “sempre in forma anonima”. E’ un mistero.
Ma il Presidente ha proseguito, aggiungendo: “Nessuna certificazione, nessuna etichettatura. L’idea è proprio quella di fornire indicatori che probabilisticamente individuano dei fragili. Come dire: se ho determinate caratteristiche fisiche, sono esposto a determinati rischi, e mi controllerò per prevenirli. Un’altra lettura delle cose favorisce l’oscurantismo”.
Pure stavolta non può non osservarsi come equiparare l’indicatore di fragilità all’avere “determinate caratteristiche fisiche” che espongono “a determinati rischi” parrebbe un modo alternativo di definire una certificazione per handicap fisico. O no?
Perdipiù, se si pensa che la funzione di distinguere gli studenti “ordinari” da quelli che hanno “determinate caratteristiche fisiche” è affidata ad un algoritmo, è forse in primis proprio il Ministero dell’Istruzione (e del Merito) – che dispone la somministrazione delle prove INVALSI - a dover essere accusato di oscurantismo.
Sarebbe allora il caso che quell’accorato slancio liberaldemocratico mostrato dal novello Ministro con la lettera indirizzata agli studenti nel giorno dell’anniversario della caduta del Muro di Berlino venisse anche impiegato. Quando davvero serve.
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