Per chi ha in testa il mondo delle banche, arrivare alla “Goldman Sachs” vale probabilmente come per un appassionato di spazio essere assunto alla Nasa. Una delle più grandi banche d’affari del mondo, con oltre 37mila dipendenti sparsi fra la sede di New York, al leggendario 200 di West Street, in Lower Manhattan, e filiali altrettanto prestigiose a Londra, Francoforte, Tokyo e Hong Kong, sulle cui scrivanie sono transitati futuri governatori, segretari al tesoro e top manager destinati a carriere interstellari.
Poi, nel marzo dello scorso anno, come se non fosse bastato il coinvolgimento nella fetida crisi dei mutui “subprime”, l’aureola paradisiaca della Goldman Sachs ha iniziato a perdere pezzi, uno dopo l’altro. Un gruppo di giovani analisti ha aperto gli occhi al mondo, spiegando che la loro vita di stellare non ha nulla, se non le notti in bianco a cui sono costretti da orari impossibili pur di rispettare obiettivi irrealistici, fra vessazioni e casi di “burnout” messi a tacere per non graffiare la carrozzeria scintillante di una banca nata nel lontano 1869. Un sondaggio, fatto circolare dagli ammutinati, parlava di “quattro ore al giorno per mangiare, dormire, lavarsi, andare in bagno e trasferirsi da casa all’ufficio e viceversa”. Con turni di lavoro settimanali che difficilmente scendevano mai al di sotto delle 100 ore, 15 al giorno, weekend inclusi.
Un caso che aveva fatto parlare l’America e il mondo intero, culminato con un articolo pubblicato dal “New York Times” dal titolo sibillino (“Perché lascio la Goldman Sachs”), in cui l’analista Greg Smith spiegava che la banca d’affari più celebre del pianeta era “Un ambiente tossico e distruttivo”, in cui i clienti sono chiamati “puppets” (pupazzi).
Un’onta che secondo il “Financial Times” la banca ha voluto lavare aumentando gli stipendi del personale più giovane, che nel primo anno di lavoro si vedranno corrisposti 110mila dollari all’anno, che diventano 125mila il secondo. Ai dipendenti senior, al contrario, l’aumento è fissato in 150mila dollari secchi. Cifre che non includono i bonus annuali, così corposi da arrivare in alcuni casi a valere fino al triplo dello stipendio.
La banca d’affari newyorkese, che si è rifiutata di commentare la notizia, non è la sola a tentare di uscire dall’imbarazzo mettendo mano al portafoglio. Il Financial Times ricorda il caso analogo accaduto in “Morgan Stanley” dopo diverse accuse di sfruttamento, culminato con l’aumento di stipendio che per gli analisti junior va da 85 a 100mila dollari e da 90 a 105mila per chi aveva almeno due anni di anzianità. Lo stesso è accaduto alla “JPMorgan Chase”, alla “Barclays”, “Citigroup” e “Bank of America”.
© Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata