L’8 marzo 1979 le donne iraniane scesero per la prima volta nelle strade di Teheran e delle principali città iraniane per manifestare contro l’intenzione del governo di introdurre l’obbligatorietà del velo in tutti i luoghi pubblici, notizia che voci sempre più insistenti stavano divulgando.
Quella volta le autorità religiose moderate intervennero per sostenere l’inammissibilità di qualsiasi coercizione e violenza in materia di hijab e la procura di Teheran dichiarò che ogni azione diretta contro le donne sarebbe stata severamente punita.
Ma erano gli anni della presa di potere dell’ayatollah Khomeyni, il leader della rivoluzione islamica che, cacciato Reza Pahlavi, aveva trasformato la monarchia del paese in una repubblica islamica sciita, impostata su una rigida base fondamentalista che avrebbe, da lì in poi, inaugurato quella linea di potere definita “teocratica”, che tuttora sopravvive in Iran e che mantiene quelle caratteristiche dittatoriali per cui qualunque forma di opposizione – politica, religiosa, civile – è repressa con violenza e abusi.
Perciò, nel 1984, l’Assemblea consultiva islamica dell'Iran approvò la legge penale islamica, che stabilì, tra l’altro, una condanna a 72 frustate per le donne che non avessero indossato l'hijab nelle strade e nei luoghi pubblici.
Era solo l’inizio, perché quella pena si sarebbe più tardi evoluta, prevedendo altre modalità via via sempre più gravi: multa, detenzione per brevi periodi o – ed è storia di questi giorni - lezioni di “ri-educazione”.
Di fatto il codice sull’abbigliamento che imponeva l’uso del velo era un modo per dimostrare al mondo intero che l’Iran era uno Stato islamico, distante dalle influenze occidentali cui era stato consentito l’accesso durante la monarchia Pahlavi; un vero e proprio strumento politico utilizzato dal regime islamico contro qualunque inquinamento contrario o inadeguato alla propria ideologia.
Da allora il movimento femminile in Iran ha iniziato la sua rivoluzione, silenziosa, instancabile, riuscendo peraltro ad ottenere anche qualche successo – o, meglio, qualche alleggerimento – in un contesto in cui il valore della vita stessa di una donna è considerato la metà di quello di un uomo.
Ma contro la legge più avversa alla loro libertà - quella sul velo obbligatorio – nulla hanno potuto ed essa resta tuttora motivo di arresto di tante attiviste e donne che protestano apertamente.
Mahsa Amini, in ordine di tempo, è una delle ultime; è morta poco più di due mesi fa a seguito delle percosse e delle torture inflittele dalla Gasht-e Ershad, la polizia “per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio” che l’aveva arrestata perché portava il velo in maniera inappropriata.
Stavolta però qualcosa di diverso è accaduto. La protesta che è seguita al suo assassinio non si è fermata alle sole donne, ma per la prima volta ha unito, compatti, tutti: i ricchi e i poveri; gli abitanti delle grandi città e quelli delle province; i giovani e i meno giovani; gli uomini – perfino – scesi finalmente anche loro accanto alle donne. E, soprattutto, ha avuto la potenza di oltrepassare le divisioni etniche interne all’Iran, scardinando antiche distanze e tensioni sociali.
E così le manifestazioni hanno continuato a diffondersi a macchia d’olio in tutto il Paese, nonostante le autorità abbiano reagito severamente, con arresti e repressioni violente. Ad oggi, dopo circa otto settimane dall’inizio delle manifestazioni seguite alla morte di Mahsa, si contano circa 400 morti e più di 14mila arresti.
Grazie ai numerosi video circolati in rete, che mostrano donne che si liberano della loro hijab e gli danno fuoco, la protesta è andata oltre i confini della Repubblica Islamica, rompendo quel silenzio e quella solitudine che in passato hanno sempre caratterizzato la loro ribellione. E non si è fermata alla questione del velo: è divenuta anzi l’occasione per denunciare tutti gli altri vizi di una teocrazia antiquata, violenta e corrotta in cui le interferenze nella vita privata della popolazione, la repressione e il nepotismo sono le regole imperanti cui soccombe la speranza di una qualunque evoluzione.
Ma in questa parte del mondo, nel nostro occidente libero e liberista, il grido d’aiuto dei cittadini iraniani che si appella alla comunità internazionale chiedendole di mostrare il suo sostegno, nulla si è mosso.
Presi da crisi economica, residui di pandemia, conflitto russo-ucraino, sia l’Europa che gli USA sono rimasti sordi a quelle invocazioni, talmente disattenti da non considerare affatto la possibilità che proprio la protesta delle donne, con la capacità che ha dimostrato di essere un collante, potrebbe parimenti rappresentare la base per un’azione politica più ampia che coinvolga trasversalmente tanti altri temi tuttora irrisolti, la sfida più compatta ed efficace contro il regime iraniano.
E allora ecco che il richiamo più forte, quello che meglio scuote le coscienze, viene affidato ad uno dei gesti più semplici e puri.
Un bacio.
Tutti ricordano quello immortalato da Alfred Eisenstaedt tra un marinaio americano ed una giovane donna, a Times Square il 14 agosto 1945, divenuto il simbolo della fine della seconda guerra mondiale.
Chissà che lo stesso valore non sarà riconosciuto un giorno a quello che due giovani si scambiano in piedi, al centro di una trafficata strada di Shiraz (città centro-meridionale dell'Iran) infrangendo deliberatamente la rigida legge della Sharia, che vieta i baci in pubblico. Lei è senza velo; le loro mani sono intrecciate; il viso dell’una confuso e nascosto dal viso dell’altro. Tutt’intorno l’ordinario continua a scorrere: le luci, i suoni, le auto; e loro, incuranti di tutto, si fermano per lanciare al mondo un messaggio d’amore.
È l’atto rivoluzionario più potente che ci sia, che consegna all’umanità intera una lezione meravigliosa di coraggio, di fermezza, di fiducia nelle proprie idee; una commovente dimostrazione della volontà di non arrendersi a ciò che impedisce ai propri sogni di spiccare il volo, anche a costo della vita, cui resta poco senso se è privata del suo bene più grande: la libertà.
Guardiamolo tutti quel bacio, noi fortunati abitanti del lato libero del mondo. Sentiamolo; fermiamoci a considerarne la forza e la paura, noi che non dobbiamo nasconderci per amare.
I ragazzi che si amano non ci sono per nessuno
Loro sono altrove ben più lontano della notte
Ben più in alto del sole
Nell'abbagliante splendore del loro primo amore
(J. Prévert)