«Spero che a nessuno venga in mente di politicizzare questa decisione», aveva detto il preside Alessandro Fanfoni, ignorando evidentemente che fosse già troppo tardi e che la scelta - assolutamente democratica - adottata dalla sua scuola fosse invece entrata immediatamente nel mirino di quanti, fermi sulla superficie dell’apparenza e per nulla tentati dall’immergersi verso le ragioni rimaste sul fondo, l’hanno immediatamente additata come gesto di “sudditanza”, “servilismo” o anche peggio.
È così, dunque, che l’”audace” decisione di chiudere la sua scuola per un giorno, in coincidenza della festa di Eid-El-Fitr - la celebrazione della fine del Ramadan – ha fatto esplodere una polemica decisamente più ingombrante di quella che ci si poteva aspettare.
È accaduto a Pioltello, un comune del milanese dove, nella scuola pubblica per l’infanzia, primaria e secondaria di primo grado - di cui è dirigente il preside Fanfoni e intitolata a Iqbal Masih - l’utenza è quasi per il 50% composta da bambini di fede islamica.
Per analizzare la vicenda si potrebbe intanto già partire da questo primo dato “formale”: il nome dell’istituto. Iqbal Masih era un bambino pakistano, ucciso nel 1995, a 12 anni, perché divenuto giovane attivista della lotta contro il lavoro minorile. Egli stesso, sin dall’età di 5 anni, era stato costretto a lavorare per dodici ore al giorno, incatenato ad un telaio e malnutrito, alle dipendenze di un venditore di tappeti, cui suo padre l’aveva venduto per poter ottenere i soldi necessari a saldare un debito pregresso.
Questa intitolazione, conferita ad un istituto d’istruzione, costituisce evidentemente, oltre che un significativo omaggio al sacrificio di un giovanissimo martire, anche un chiaro segnale di inclusione, di riconoscimento di valori universalmente condivisi, utili a somministrarsi sin dai primi anni si scolarizzazione, al di là di ogni barriera etnica e culturale.
Andando però oltre, l’altro dato oggettivamente rilevante sul quale si è giudiziosamente fondata la scelta che ha tanto fatto discutere è quella che lo stesso preside dell’Iqbal Masih ha chiaramente indicato: se la folta presenza di alunni stranieri di fede islamica in ciascuna classe è tale da lasciarle pressoché deserte nel giorno della festa di chiusura del Ramadan, è allora senz’altro saggio assecondare tale tendenza, concedendo un giorno di sospensione delle attività didattiche. Il tutto, nel pieno rispetto delle norme che stabiliscono il computo dei giorni di lezione necessario alla validità dell’anno scolastico.
E, difatti, a questo esplicito criterio, riconosciuto dall’autonomia scolastica, si è ispirato - in piena democrazia - il “piccolo parlamento” scolastico, ossia il consiglio d’istituto che, a inizio d’anno, ha deliberato di anticipare di un giorno il ritorno a scuola, sì da poterlo poi recuperare in coincidenza della festa di Eid-El-Fitr, il prossimo 10 aprile.
Nulla di irregolare, dunque, né da un punto di vista normativo né – soprattutto – da un punto di vista umano, laddove si evidenzino quei principi di rispetto, tolleranza e solidarietà sottesi alla decisione e che di certo sono ben altra cosa dalla “sudditanza”. “Non possiamo chiudere gli occhi davanti a questi numeri e alla realtà” - ha dichiarato il dirigente dell’istituto – “Questa festa è per molti di loro una tradizione, tra l’altro spesso condivisa anche dai compagni di classe italiani che partecipano per condividere.”
Sotto il profilo giuridico, vale forse la pena richiamare le espresse previsioni della normativa di riferimento. Il DPR 8 marzo 1999, n. 275, contenente il Regolamento in materia di autonomia delle istituzioni scolastiche, esordisce con le indicazioni relative allo scopo di tale autonomia, declinandolo, tra l’altro, come “garanzia di libertà di insegnamento e di pluralismo culturale” che “si sostanzia nella progettazione e nella realizzazione di interventi di educazione, formazione e istruzione mirati allo sviluppo della persona umana, adeguati ai diversi contesti, alla domanda delle famiglie e alle caratteristiche specifiche dei soggetti coinvolti”.
Il successivo art. 5 dello stesso DPR precisa, ancora, che “gli adattamenti del calendario scolastico sono stabiliti dalle istituzioni scolastiche in relazione alle esigenze derivanti dal piano dell’offerta formativa, nel rispetto delle funzioni in materia di determinazione del calendario scolastico esercitate dalle regioni”, e le Regioni confermano (nello specifico, l‘indicazione è reperibile sul sito della regione Lombardia, nella pagina dedicata al calendario scolastico) che le istituzioni scolastiche e formative, nel rispetto del monte ore annuale previsto per le singole discipline e attività obbligatorie, possono disporre opportuni adattamenti del calendario scolastico d’istituto, provvedendo a comunicarli tempestivamente alle famiglie entro l’avvio delle lezioni.
Dunque, purché siano garantite le prescritte 200 giornate di lezione all’anno, ogni scuola può decidere in autonomia e in deroga al calendario regionale la chiusura in alcuni giorni, come di fatto avviene in occasione di “ponti”, festività locali (come quella del Santo Patrono) o carnevale.
La competenza a decidere tali adattamenti del calendario scolastico spetta al consiglio d’istituto, come espressamente previsto dal “Testo Unico delle disposizioni legislative vigenti in materia di istruzione, relative alle scuole di ogni ordine e grado” (D.lgs. n. 297/1994).
Di fronte a tali argomentazioni tendono perciò a cadere sia i proclami del Ministro dell’Istruzione - che invoca controlli e verifiche - giacché il caso di specie non è quello di una scuola che, come ha sostenuto, ha stabilito “nuove festività in modo diretto o indiretto”. Qui non c’è nulla di istituzionalizzato o definitivo, ma soltanto un intervento specifico ed istantaneo attuato nel legittimo perimetro degli adattamenti consentiti dall’autonomia scolastica; sia gli esacerbati commenti di politici che vogliono a tutti i costi individuare nella scelta adottata dalla scuola di Pioltello un “pericoloso arretramento sulla nostra identità”, un assecondamento del “processo di islamizzazione che si diffonde con forza in tutta Europa”, una “deriva inaccettabile”.
Quanto sarebbe invece più proficuo mettere da parte inutili polemiche e guardare l’episodio per quello che davvero è: un atto di semplice civiltà e di rispetto, che, come ha limpidamente espresso lo stesso preside Fanfoni: “non è toglie nulla a nessun altro, non cancella l’identità culturale dello Stato in cui siamo. Chiudere non è un gesto per farsi benvolere dalla comunità araba, è semplicemente il riconoscimento della specificità del nostro contesto”.