Chi naviga nel mare magnum dei social seguendo la scia dei tanti influencer che, puntando sull’effetto emulativo scaturente dalla loro notorietà, sono in grado di condizionare le scelte d’acquisto se non addirittura i comportamenti dei loro followers, spesso ignora che si tratta di un contesto sottoposto a rigide regole, la cui applicazione si è resa necessaria proprio in virtù della grande espansione che il fenomeno ha avuto negli ultimi anni.
Non esiste, ad oggi, una definizione giuridica di “influencer”, come nemmeno esiste una disciplina giuridica dell’influencer marketing, espressione quest’ultima con cui si indica l’ormai consolidata pratica di pubblicizzare/supportare determinati prodotti o brand passando attraverso lo sfruttamento dell’immagine e dei video di personaggi famosi.
Tuttavia, proprio perché i fans dei “miti” del momento, seguendone le vicende sui vari canali social, si imbattono in comunicazioni commerciali di natura pubblicitaria, si è evidenziata la necessità di estendere anche agli influencer le regole necessarie ad evitare che i consumatori (perché, in finale, nel gergo dell’economia, tali sono i followers) vengano fuorviati o comunque ingannati dal contenuto del messaggio veicolato, tanto più se esso venga percepito più come un semplice consiglio derivante dall’esperienza personale dell’idolo seguito che non come vera e propria pubblicità.
Ecco dunque che soccorre anzitutto la disciplina contenuta nel Codice del Consumo con riguardo alla pubblicità occulta, alla pubblicità ingannevole ed alle pratiche commerciali aggressive.
A riguardo l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) - o Antitrust – con un comunicato del 2017 aveva evidenziato il rischio che l’impiego dell’influencer marketing, proprio perché non palesava in maniera chiara ed inequivocabile al consumatore (follower) la finalità pubblicitaria sottesa alla comunicazione (video, post, ecc.), potesse giungere a prendere una deriva di illiceità, andandosi a configurare quale pratica commerciale scorretta ai sensi dell’art. 20 e sgg. del Codice del Consumo (D.lgs. n. 206 del 6 settembre 2005, aggiornato dalla L. 28 febbraio 2020, n. 8).
Dette norme sanzionano la “pubblicità ingannevole”, per tale intendendosi quella che, in violazione del principio sancito dall’art. 1, comma 2, del Decreto Legislativo 145/2007, non sia palese, veritiera e corretta e che, con riferimento al contesto dei social network, ancor meglio si configura come “pubblicità occulta”. Quest’ultima, pur non avendo una sua esplicita definizione nel Codice del Consumo, è difatti riconducibile alla prima, come ha chiaramente evidenziato il Consiglio di Stato (sez. VI, 12/03/2012, n.1387) che l’ha indicata come quella pubblicità in cui viene occultata la natura promozionale del messaggio quando tale occultamento sia “di per sé idoneo a determinare un falso convincimento nel consumatore e a condizionarne le scelte”. Vi sono dunque ravvisabili gli estremi dell’ ingannevolezza “in base al principio secondo cui la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale e che è vietata ogni forma di pubblicità subliminale: la pubblicità ingannevole, infatti, è insita in un qualsiasi messaggio che possa indurre in errore i soggetti a cui è rivolto e in tale ambito rientra la pubblicità occulta, che si sostanzia in una condotta insidiosa fondata su un’informazione apparentemente neutrale e disinteressata, che può portare un pregiudizio economico al mercato dei consumatori”.
Prima ancora dell’Antitrust e del Codice del Consumo un efficace intervento in tema di influencer marketing c’era stato da parte dell’Istituto dell’autodisciplina pubblicitaria (IAP), l’ente preposto a fissare i parametri per una comunicazione commerciale “onesta, veritiera e corretta” a tutela dei consumatori e della leale concorrenza tra le imprese; obiettivi per i quali ha redatto il “Codice di Autodisciplina” per la diffusione di una comunicazione commerciale responsabile a vantaggio di tutti: delle aziende che richiedono il rispetto delle regole della concorrenza, dei cittadini-consumatori che rifiutano messaggi ingannevoli o offensivi e dei mezzi che auspicano che i contenuti editoriali non vengano inquinati da messaggi non graditi al pubblico.
Con specifico riferimento all’ambito che qui interessa, l’IAP nel 2016, proprio nel momento in cui il settore pubblicitario veniva rivoluzionato dalle nuove formule, ha redatto la c.d “Digital Chart”, un documento contenente una sorta di codice di comportamento relativo alla comunicazione commerciale nel mondo digitale.
Pur non trattandosi di un testo normativo e non essendo, come tale, vincolante, questo documento recepisce le indicazioni del Codice di Autodisciplina rivedendole in chiave più “pragmatica” per renderle adattabili alla comunicazione online.
Nello specifico, la Digital Chart prevede che, ove l’influencer sia pagato per proporre, promuovere e sponsorizzare un determinato prodotto o servizio da parte di una azienda che lo produce o lo commercializza, per rendere riconoscibile la natura promozionale dei contenuti postati sui social deve inserire in modo ben distinguibile entro i primi tre hashtag (#) una delle seguenti diciture: “#Pubblicità o #Advertising”, “#Sponsorizzato” o #Sponsored”, “#adv” “#brand””, seguite dal nome del marchio.
Qualora, invece, il rapporto tra influencer e l’inserzionista si limiti, da parte di quest’ultimo, a un occasionale invio a titolo gratuito di propri prodotti di modico al primo, così che questi li menzioni nei suoi post, basterà che inserisca un disclaimer ben leggibile, come “prodotto inviato da … ” seguito dal nome del brand.
Nulla di tutto ciò occorre laddove, invece, l’influencer si limiti a commentare sui propri canali social, Blog o YouTube un prodotto che ha acquistato di tasca propria, che ha provato e che ha trovato valido, poiché in tal caso si resta nell’ambito del generale diritto di libertà di manifestare il proprio pensiero.
Va peraltro segnalato che, negli ultimi anni, l’approccio dell’AGCM (e, dunque, le sue decisioni) relativo all’ambito qui in esame è andato orientandosi verso una maggiore rigidità: se in passato essa si limitava ad emettere pronunce improntate a criteri di “persuasione morale”, esortando imprese e influencer ad attenersi a condotte analoghe a quelle dettate dalla Digital Chart, più di recente ha invece fatto ricorso all’apertura di indagini per pubblicità occulta e ad innescare i relativi processi.
Interessante è stato, tra questi ultimi un provvedimento (28167/2020) che per la prima volta ha considerato anche i “microinfluencer”, ossia quei soggetti che vantano un numero limitato di followers (dai 1.000 ai 20.000 circa) ma riescono ad ispirare maggior fiducia e generare maggior coinvolgimento nella loro community in virtù della loro focalizzazione su uno specifico ambito tematico (nello specifico, Barilla aveva assoldato numerosi microinfluencer specializzati nel contesto culinario affinché pubblicassero post e ricette relativi alla preparazione di dolci a base della nuova crema della linea Pan di Stelle).
L’aspetto più rilevante di queste ultime pronunce dell’AGCM è che esse hanno tra l’altro fornito vere e proprie linee guida per chi voglia avvalersi dello strumento dell’influencer marketing, ribadendo una serie di buone pratiche rivolte alle società committenti e agli influencer. Più precisamente, per le società committenti: l’emanazione da parte di figure apicali di linee guida aziendali per l’influencer marketing; la regolamentazione precisa dei rapporti contrattuali con i professionisti; la previsione di meccanismi di deterrenza e sanzionatori a carico di questi ultimi in caso di violazione delle direttive ricevute; la responsabilizzazione delle agenzie rispetto all’attività di vigilanza sull’operato degli influencer. Per gli influencer: l’impegno a comunicare in modo trasparente la finalità promozionale della comunicazione con l’implementazione degli opportuni disclaimer, a seconda che il rapporto con la committente sia regolato da un contratto a titolo oneroso o sia occasionale e gratuito.
Un’ultima notazione va, infine, fatta riguardo all’inquadramento professionale della figura dell’influencer: la sua attività viene svolta come attività di lavoro autonomo e, quindi, con Partita IVA e con iscrizione obbligatoria agli enti di previdenza preposti. Perciò esso è inquadrabile come un professionista che, dietro corrispettivo, effettua delle campagne di marketing per aziende terze nei confronti di consumatori finali. Anche per tale ragione, si applicano dunque al relativo rapporto, in quanto compatibili, le norme del Codice del consumo.