Il passaggio delle consegne e la divisione di mobili e suppellettili è, solitamente, uno dei capitoli più dolorosi e, spesso, anche più combattuti della trama di una separazione coniugale.
La conta di ciò che sia stato acquistato insieme, in costanza di matrimonio, e che per motivi affettivi, abitudine oppure solo per dispetto ciascuno dei due ex coniugi vuole portare con sé è spesso causa d’ulteriore attrito, specie se la separazione manca di consensualità.
Perciò, se a volte può essere facile convenire su cosa fosse di proprietà di chi, altre volte determinarlo è causa di dissidio e può dunque capitare che uno dei due coniugi agisca in maniera poco ortodossa pur di accaparrarsi un oggetto che non è pacifico che gli appartenga.
È ciò di cui si occupata la Cassazione con una recentissima sentenza, con cui ha ritenuto configurabile il reato di furto in abitazione per il coniuge che, nell'andare via dall'abitazione coniugale, porti con sé un bene di proprietà esclusiva dell'altro ex-coniuge.
Nello specifico, la sentenza n. 10149 del 16 marzo 2021 della quarta Sezione penale della Suprema Corte ha chiarito che il reato da contestare (e per cui condannare) alla ex moglie che porta via dalla casa coniugale una TV, un tavolino e dei tappeti che il marito aveva acquistato personalmente prima del matrimonio rientra nella fattispecie del furto in abitazione e non della sottrazione di beni comuni.
La vicenda, sia nella trattazione di primo che di secondo grado, aveva visto soccombere la ex moglie, ritenuta responsabile dei reati che le erano stati contestati. Nel dettaglio: molestie (art. 660 c.p.) percosse (art. 581 c.p.), furto in abitazione (art. 624 bis c.p.) e danneggiamento (art. 635 c.p.). In secondo grado, tuttavia, la Corte d'Appello (di Palermo), riformando parzialmente la pronuncia di primo grado, aveva dichiarato di non doversi procedere nei confronti dell'imputata per intervenuta prescrizione relativamente al reato di molestie, mentre aveva confermato la decisione nella parte restante in cui il Tribunale (di Marsala) aveva ritenuto l'imputata responsabile della commissione degli altri reati suindicati. La pena era quindi stata rideterminata in 9 mesi di reclusione e 400 euro di multa, con conferma delle statuizioni civili.
La sentenza d’appello è stata dunque impugnata con ricorso in Cassazione dall’imputata, che ne ha lamentato la mancata motivazione e l'erronea qualificazione giuridica dei fatti contestati. La ex moglie si sarebbe difatti ritenuta responsabile del reato di cui all’art. 627 c.p., che prevede la sottrazione di cose comuni (così disponendo: "Il comproprietario, socio o coerede che, per procurare a sé o ad altri un profitto, si impossessa della cosa comune, sottraendola a chi la detiene, è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni o con la multa da euro 20 a euro 206. Non è punibile chi commette il fatto su cose fungibili, se il valore di esse non eccede la quota a lui spettante.") e che è stato depenalizzato a seguito dell’abrogazione della relativa norma, disposta dall’art. 1, comma 1, lett. d), D.Lgs. 15 gennaio 2016, n. 7.
A supporto della riconducibilità della propria condotta all’abrogato articolo, la donna avrebbe richiamato la fattispecie contemplata dall'art. 219 c.c., che prevede una presunzione di appartenenza comune ai due coniugi dei beni in relazione ai quali non si sia in grado di dimostrare la proprietà esclusiva di uno dei due (testualmente tale norma dispone che: "ll coniuge può provare con ogni mezzo nei confronti dell'altro la proprietà esclusiva di un bene. I beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi.").
La Cassazione, però, non ha ritenuto fondato il motivo del ricorso - che è stato pertanto dichiarato inammissibile - rilevando che nella sentenza d’appello si precisa che, in sede istruttoria, era già stata raggiunta la prova relativa alla commissione del reato di furto in abitazione. Di conseguenza ha evidenziato come non sia possibile proporre ricorso su motivi che riproducono le medesime ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, non trattandosi di motivi specifici. La Corte d’Appello aveva, infatti, accertato che l'imputata si era impossessata di alcuni beni (un televisore, alcuni tappeti e un tavolino) che erano stati acquistati dalla persona offesa prima delle nozze, e l'attendibilità della testimonianza resa dal soggetto derubato aveva escluso che nel caso di specie potesse ricorrere un illecito penale diverso.
La Cassazione ha dunque riconosciuto inconferente il richiamo all'art. 627 c.p. (abrogato dal D.Lgs n. 7/2016) e corretta la qualificazione giuridica della condotta dell'imputata come furto in abitazione. Ha conseguentemente condannato la ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma di tremila euro a favore della Cassa delle ammende.
Fuori dall’esame di questo specifico caso, vale solo la pena fare un accenno alla previsione contenuta nell’art. 649 c.p., a norma del quale i reati contro il patrimonio contemplati nel Titolo XIII del codice penale (ivi compreso il furto, dunque), non sono punibili se commessi in danno del coniuge non legalmente separato ( e della parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso, secondo l’aggiunta operata dall’art. 1 del D.Lgs. 19 gennaio 2017, n. 6). Condizione per applicare questa norma è, evidentemente, che la coppia sia ancora sposata (o unita civilmente). In tal caso, se la coppia è in comunione dei beni e uno dei due coniugi si accorge che l’altro sottrae beni (denaro dal conto corrente o oggetti di famiglia) senza autorizzazione, può tutt’al più tutelarsi solo in via civile e chiedere al giudice che la condanna a reintegrare la comunione del proprio 50% sottratto illegittimamente, mentre non è possibile alcuna querela.
Viceversa, ove sia già intervenuta una sentenza di separazione, il coniuge che scopre l’altro a sottrarre oggetti da casa – siano essi di valore o meno – può querelarlo per appropriazione indebita. In questo caso, infatti, non funziona più la predetta causa di non punibilità. E, del resto, con la sentenza di separazione cessa anche la comunione e i beni vengono divisi. Sicché appropriarsi degli oggetti appartenenti all’altro (sia pure solo al 50%) costituisce reato.