Quasi 5,5 milioni in Europa, 700mila in Italia: è il popolo di rider, autisti e tassisti secondo le stime della Commissione UE, ma si parla solo di quelli ufficiali, al netto di 28 milioni realmente occupati nel settore, per lo più giovani (ma non solo) che tentano di sbarcare il lunario consegnando cibo pronto a domicilio. Un business che nella sola Europa conta circa 500 piattaforme a spartirsi un fatturato annuo di 20 miliardi di euro, ma in cui oltre la metà dei lavoratori guadagna meno del salario minimo del Paese in cui lavorano.
Una categoria per lunghi anni vittima di sfruttamenti vari e assortiti su cui, finalmente, ha acceso i riflettori Bruxelles dopo le sentenze di diversi tribunali europei che hanno stabilito l’obbligo di applicare ai rider la normativa sul lavoro dipendente.
È notizia freschissima l’accordo raggiunto al Consiglio Europeo che punta a colpire le false partite Iva, classificare l’occupazione e soprattutto migliorare le condizioni di lavoro dei “ciclofattorini”, spesso inquadrati come finti lavoratori autonomi a cui finora sono stati negati diritti come il salario minimo, ferie, contributi, malattia e pensione.
Un rider, secondo l’ultimo testo, bocciato lo scorso 22 dicembre e considerato da più parti molto controverso, non poteva più essere considerato autonomo se rispondeva ad almeno due dei cinque criteri stabiliti (un limite al guadagno, la supervisione del lavoro, controllo su distribuzione e prestazioni, controllo delle condizioni di lavoro e nella scelta degli orari e per finire restrizioni nella possibilità di organizzare il proprio lavoro). Una serie di discriminanti contro cui si sono schierate Italia e Francia, che hanno ottenuto dal parlamento UE la possibilità per ogni singolo stato membro di stabilire i criteri rispettando le normative nazionali, i contratti collettivi e la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea. A non cambiare è la “presunzione legale”, ovvero nel caso sia riconosciuta la subordinazione, spetterà all’azienda di provare che il rapporto non è da dipendente.
Un accordo che dà il via alle prime norme del settore, a cominciare dalla gestione del lavoro attraverso gli algoritmi e con il supporto dell’Intelligenza Artificiale, utilizzati dalle piattaforme per monitorare l’attività dei rider, a cui ogni azienda dovrà affiancare una “supervisione umana per garantire le conformità delle condizioni di lavoro”, ma usati anche per profilare condizioni emotive e messaggi tra colleghi o addirittura prevedere chi ha intenzione di iscriversi ad un sindacato. In pratica, non potrà più essere un sistema automatizzato a licenziare un dipendente, ma servire sempre la scelta umana.
“Si tratta di un testo equilibrato che tutela i lavoratori, buoni datori di lavoro e prevede condizioni di parità a livello europeo - afferma l'eurodeputata del Pd Elisabetta Gualmini, relatrice del testo all’Europarlamento - sarà anche la prima volta che avremo norme UE sulla gestione algoritmica sul posto di lavoro. Una maggiore trasparenza e responsabilità per gli algoritmi e una maggiore protezione dei dati per i lavoratori delle piattaforme dovrebbero diventare un vero punto di riferimento a livello globale”.
“Ora ci auguriamo che gli Stati membri non voltino la faccia a 30 milioni di lavoratori tra i più vulnerabili in Europa e nel mondo”, ha ammonito la Gualmini.
Fra i più decisi oppositori del trilogo europeo, come accennato, c’è da sempre la Francia, che da tempo ha adottato un atteggiamento uniforme al lavoro tramite piattaforme favorendo il lavoro autonomo ma con diritti lavorativi e con canali rafforzati di “dialogo sociale”.
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