Non poteva che essere questo il titolo più adatto alla riflessione che segue, con chiaro rimando alla ben più nota “Lettera a una professoressa”, il libricino scritto nel 1967 da don Lorenzo Milani con gli alunni della scuola di Barbiana, quella minuscola comunità di quaranta anime sperduta nel Mugello dove si piantò il seme di un’autentica rivoluzione sul senso ed il valore della scuola.
Mi è tornato in mente quando ho letto l’aggiunta con cui il neonato Governo ha ribattezzato il Ministero dell’Istruzione, divenuto ora “Ministero dell’Istruzione e del Merito”; e, giacché ho sempre avuto la convinzione che le parole hanno un senso - poiché rivelano, connotano, assegnano una precisa identità a ciò cui si riferiscono - ho cercato di capire quale fosse il significato da attribuire a quel “Merito”.
Nella sua accezione comune, “meritevole” (da “merito”) è ciò che è “degno di lode, di premio, o anche di un castigo: premiare, punire, trattare secondo il merito” – si legge nel vocabolario Treccani – “In genere però ha senso positivo, e indica il diritto che con le proprie opere o le proprie qualità si è acquisito all’onore, alla stima, alla lode, oppure a una ricompensa”.
Mutuando questo significato nell’ambito della “meritocrazia” – che è ciò che ha evidentemente inteso sottolineare la nuova dicitura del Ministero – il risultato che si ottiene è l’intenzione di affermare un sistema che tende a premiare soltanto i bravi, mentre tutti gli altri sono automaticamente declassati a inetti o nullafacenti. Il “merito” tende così ad identificarsi con le prestazioni – quelle che assicurano il successo o la ricompensa – e diventa perciò un modo apparentemente nobile di nascondere un’autentica diseguaglianza sociale.
Questo pare. E nulla è più lontano da ciò che l’istruzione – e dunque la scuola - dovrebbe invece essere.
È qui che torna dunque il richiamo alla scuola di Barbiana e all’opera di don Milani.
Ciò che allora egli aveva inteso affermare era l’idea di una scuola come luogo che potesse offrire pari opportunità a tutti i suoi studenti, indipendentemente dalla loro condizione.
Una istituzione basata perciò non sulla competizione – che è inevitabilmente il meccanismo che si innesca quando si ragiona in termini di “premio” o “ricompensa” – ma sull’uguaglianza, sulla riduzione di ogni disparità, sull’aiuto, rimuovendo ogni ostacolo che impedisca ai talenti di sbocciare o che condanni coloro che hanno difficoltà a restare da parte, a sentirsi inadeguati.
In una tale accezione, allora, “essere meritevole” non equivale ad “essere il migliore”, emergere in un contesto prestazionalista e competitivo. Vuol dire, piuttosto, “aver compiuto ogni sforzo necessario per raggiungere il meglio”.
La scuola non deve richiedere un confronto tra l’uno e l’altro, ma il confronto con il sé stesso del prima e del dopo; e la sua funzione non deve essere perciò quella di individuare e premiare i migliori, ma quella di tirar fuori il meglio da ciascuno studente e studentessa in base alle proprie caratteristiche e alle proprie capacità.
Che senso ha, altrimenti, sbattersi tanto in favore dell’inclusione? Quale coerenza formativa potrebbe altrimenti riconoscersi a una scuola che risulti poi selettiva nel senso più darwiniano del termine?
A tutti vanno riconosciute le stesse opportunità, tenendo presente che ciò che è minimo per alcuni è il massimo per altri, e questa consapevolezza va applicata soprattutto nei riguardi degli studenti con disabilità, degli stranieri, di quelli con un qualunque altro bisogno educativo speciale che – ove si guardasse esclusivamente alla “premialità” del merito – sarebbero a priori automaticamente esclusi in quanto non competitivi.
Possono invece anch’essi essere migliori riguardo a sé stessi, ove con ciò si intenda quell’accrescimento di conoscenze, di competenze ma anche soltanto di autonomia che la scuola sarà stata in grado di far loro conseguire. Mettendo a frutto il massimo che possono fare.
Mi viene qui in mente anche un’affermazione di Gianni Rodari: “Tutti gli usi della parola a tutti. Mi sembra un buon motto, dal bel suono democratico. Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo”.
Questo è il solo “merito” che si possa pretendere dall’istruzione: mettere tutti in condizione di raggiungere i propri traguardi, non di gareggiare per arrivare primi ad un unico traguardo.
E sia ben chiaro che lo stesso vale anche per gli insegnanti, ove mai si credesse che è a questi che si riferisca il Merito preteso dalla nuova denominazione del Ministero.
Anche qui, se al maggior impegno degli insegnanti conseguisse il “merito” (= premio) di una maggiore retribuzione, finirebbe per innescarsi pure tra loro una malsana competizione, destinata al trionfo di uno/alcuni che lasciano indietro tutti gli altri.
Anche qui il confronto finirebbe allora per non essere con sé stessi, con le proprie accresciute capacità ed esperienze, ma con gli altri, in una perenne sfida a chi dimostra di far di più, indipendentemente – spesso – dalla qualità del proprio operato.
Forse, allora, è questo che si dovrebbe avere ben presente: che nessun premio può esserci laddove il presupposto sia un conflitto, poiché il vero merito non è una gara o una sfida, ma un cammino di miglioramento.