Quando, nel 1961, Pietro Germi, portando sul grande schermo il suo “Divorzio all’italiana” mise in luce, con intelligente ironia, l’arretratezza della società siciliana ma, soprattutto, quella legislativa di un’Italia che, a differenza di tutti gli altri Paesi del MEC, ancora non aveva una legge sul divorzio e continuava a contemplare una fattispecie di reato attenuata qual era quella del delitto d’onore, i semi di una rivoluzione stavano già germogliando.
In verità, a dirla tutta, l’Italia il divorzio l’aveva conosciuto già, agli inizi del 1800, quando aveva mutuato come proprio il Code Civil des Français o Code Napoleon, mantenuto fino al 1865 quando, a seguito dell’Unità d’Italia, ne aveva varato un altro, tuttavia ancora saldamente ancorato al modello francese, da cui solo molto più tardi, nel 1942 si sarebbe staccato col nuovo e tuttora vigente codice civile.
Il Code Napoleon prevedeva difatti il divorzio, sebbene - in un contesto normativo basato su un’idea di famiglia stabile e autoritaria - fosse ridotto a istituto sostanzialmente eccezionale. Le sole cause che l’ammettevano erano l’adulterio, la condanna a pena infamante, gli eccessi, sevizie ed ingiuria grave e, benché fosse anche previsto il divorzio per mutuo consenso, di fatto si trattava di una modalità talmente ardua e farraginosa da risultare pressoché di nulla applicazione.
Fu nel 1965 che i segni dell’accennata rivoluzione cominciarono a farsi evidenti: il deputato socialista Loris Fortuna presentò un progetto di legge sui “Casi di scioglimento del matrimonio”, scatenando un duro scontro tra i laici e i cattolici, com’era prevedibile in un Paese profondamente votato ai principi della cristianità e dunque fedele, in primis, a quello del “finché morte non vi separi”.
Fu così che, facendo da contrappunto al testo proposto da Fortuna, tre anni dopo il deputato liberale Baslini presentò un nuovo e più moderato progetto di Legge sul divorzio. Furono proprio i contenuti di questo nuovo testo che, portati ad emendamento del primo, ottennero, nell’ultimo passaggio alla Camera (che sarebbe stato ricordato come la seduta più lunga nella storia del parlamento, per essere durata dal 24 novembre al 1 dicembre 1970), l’approvazione definitiva (con 319 sì e 286 no) della Legge n. 898 del 1° dicembre 1970 – la c.d. Legge Fortuna-Baslini, appunto - introducendo una riforma cui altre parimenti consistenti sarebbero seguite, trasformando significativamente la società italiana.
La legge n. 898 prevedeva, dunque, lo scioglimento del matrimonio civile e la cessazione degli effetti civili del matrimonio concordatario; la sentenza di divorzio consentiva ad entrambi gli ex coniugi di contrarre nuove nozze civili e, per la donna, la perdita del cognome del marito (salvo diversa autorizzazione del giudice).
Ma le vicende immediatamente successive all’entrata in vigore della nuova legge evidenziarono che la novità non era stato affatto universalmente digerita. A maggio di quello stesso anno era stata promulgata una legge (n. 352/70) che, sulla base dell'art. 75 della Costituzione, aveva disposto le modalità di attuazione della procedura referendaria tramite cui era possibile abrogare in modo totale o parziale una legge dello Stato. L’occasione fu dunque colta al volo dai cattolici che, tramite il quotidiano Avvenire, lanciarono un appello per la raccolta delle 500.000 firme necessarie a indire immediatamente un primo esperimento di quel referendum, al fine di abrogare la legge appena approvata.
Di firme ne furono raccolte circa un milione e mezzo, quasi a conferma di quanto fosse radicata e profonda la cultura cattolica nel nostro Paese. Eppure, quando nel 1974 si andò alle urne per votare il referendum, il no all’abolizione della legge sul divorzio prevalse. Un nuovo referendum riproposto più tardi, nel 1981, diede lo stesso esito, con una vittoria dei No ancora più schiacciante.
I tempi erano decisamente cambiati; la gente era cambiata; le donne, soprattutto, gustavano l’affrancazione da un giogo che aveva fino ad allora imposto il matrimonio come una scelta di vita e per la vita, e che il più delle volte significava un’autentica sottomissione al marito.
La Legge sul divorzio ha dunque compiuto mezzo secolo.
Non è tuttavia rimasta cristallizzata nelle sue fattezze originarie: diverse norme successive e, soprattutto, molte pronunce giurisprudenziali, l’hanno man mano modificata per riadattarla ad un nuovo contesto sociale dove soprattutto la condizione della donna è cambiata: non più totalmente dipendente e succube della “dittatura economica” del marito, ma, a sua volta, spesso economicamente autonoma e indipendente.
Intanto con la legge n. 74 del 1987 era stato ridotto da cinque a tre anni il periodo necessario per l’ottenimento lo scioglimento del matrimonio dopo la pronuncia di separazione dei coniugi ed era stata riconosciuta al giudice la facoltà di pronunciare la sentenza di divorzio separatamente dalla decisione sulle condizioni accessorie (assegni, figli, etc).
Nel 2006, con l’introduzione del principio di bigenitorialità, è stato sostituito al precedente criterio dell’affidamento dei figli ad un solo genitore (generalmente la madre) l’affidamento congiunto ad entrambi, con ciò allineandosi anche in questo ambito ciò che la riforma del diritto di famiglia del 1975 aveva stabilito con l’introdurre la potestà genitoriale in sostituzione della patria potestà.
Con la L. 162/14 di conversione del D.L. 132/14 sono stati introdotti due nuovi strumenti che hanno semplificato radicalmente sia la procedura di separazione che quella di divorzio, eliminando quei caratteri di solennità che ancora persistevano anche a seguito della riduzione dei termini introdotta dalla legge dell’87.
Il primo strumento è la "convenzione di negoziazione assistita" che consente ai coniugi, anche in presenza di figli minori, di rivolgersi ad un legale per raggiungere una soluzione consensuale che riguardi tutti gli aspetti della separazione e del divorzio (dall’assegno di mantenimento, all’affidamento e mantenimento dei figli, fino ai trasferimenti di tipo patrimoniale tra ex coniugi) che produce i medesimi effetti di una sentenza e deve essere trasmesso all'ufficiale dello stato civile del Comune in cui il matrimonio è stato trascritto per l'annotazione sia negli atti di nascita dei coniugi sia nell’atto di matrimonio.
Il secondo strumento è quello che consente ai coniugi di recarsi personalmente innanzi all’ufficiale dello stato civile del Comune di residenza o dove è stato trascritto il matrimonio per concludere un accordo di separazione o di divorzio alle condizioni da loro stessi concordate, soluzione tuttavia non praticabile in presenza di figli minori, maggiorenni non autosufficienti, portatori di handicap o incapaci e nel caso in cui siano previsti accordi di trasferimento di diritti patrimoniali (come ad esempio l’uso della casa coniugale).
Nel 2015 è stata la volta della legge sul cosiddetto "divorzio breve": indipendentemente dalla presenza o meno di figli, il divorzio è ora ottenibile in sei mesi dalla separazione consensuale, in dodici da quella giudiziale.
E poi, ancora, tutta una serie di importanti pronunce giurisprudenziali che hanno tra l’altro portato alla cancellazione del “privilegio” secondo cui il “tenore di vita” goduto in costanza di matrimonio dovesse essere mantenuto uguale al coniuge più debole anche a seguito della cessazione del vincolo, sebbene ci siano poi stati dei temperamenti di altre pronunce che hanno evidenziato la necessità di dover tener conto, tuttavia, dell’apporto dato dalla donna durante gli anni di matrimonio; un apporto che, sebbene non sia stato di natura economica, spesso ha implicato, per la moglie, il sacrificio delle proprie possibilità di lavoro o di carriera.
Del resto tali nuovi orientamenti non fanno che rispecchiare l’evoluzione registratasi negli anni più recenti, in cui la donna ha puntato ad una maggiore autonomia ed indipendenza economica, demolendo l’immagine del matrimonio come sinonimo (anche) di protezione economica da parte del marito.
Ma, sfortunatamente, non si tratta ancora di una condizione generalizzata: se la tendenza all’autonomia di entrambi i membri della coppia vale per le nuove generazioni, molte ancora sono quelle più datate, strutturate secondo uno schema più “tradizionale”, per le quali la diseguaglianza economica, in caso di divorzio, si ritorce, con un vero e proprio effetto boomerang, contro le mogli spesso liquidate con mantenimenti tanto ridicoli da confinarle quasi alle soglie della povertà.
Allora, a distanza di cinquant’anni, il bilancio è senz’altro positivo se si guarda all’aspetto “redentivo” del divorzio, quello cioè che consente di liberarsi da legami ormai logori, apparenti, spesso anche violenti.
È senz’altro negativo ove si considerino invece gli squilibri – soprattutto economici – che tuttora non si riescono ad evitare e, soprattutto, la tendenza sempre più ricorrente ad utilizzarlo, con eccessiva leggerezza, come un comando “reset” che cancella istantaneamente - dopo tempi di durata che spesso non completano nemmeno un ciclo di rodaggio - scelte che evidentemente si compiono con scarsa ponderazione.
Il valore del matrimonio – ove ancora vi si creda – andrebbe allora meglio considerato prima di “celebrarlo” (in tutti i sensi!) e, con esso, anche quello della famiglia che naturalmente dovrebbe discenderne.