30 aprile 2022

Nel nome della madre

Autore: Ester Annetta
La questione si dibatte ormai da quarant’anni.

Era stata per prima una donna, Maria Magnani Noya - ex sindaco di Torino, avvocato penalista, sottosegretario alla Sanità nel primo governo Craxi e poi parlamentare europea – ad aver avuto l’audacia, nel 1979, di avanzare una proposta di legge sull’attribuzione del doppio cognome ai figli.

L’anno successivo, un’altra donna altrettanto audace - scrittrice e artista -, Iole Natoli, aveva iniziato una battaglia giudiziaria contro il Ministero dell’Interno per vedere riconosciuto il diritto di attribuire il suo cognome alle figlie.

Audaci, si, perché in un contesto come quello italiano, ancorato soprattutto alle tradizioni, le loro istanze, tendenti evidentemente a superare una concezione della famiglia ritenuta discriminatoria e ormai anacronistica, doveva invece sembrare pretenziosa prima ancora che rivoluzionaria.

Quella del doppio cognome in Europa è una realtà già abbastanza diffusa (in Spagna, il doppio cognome è da sempre la regola; In Francia, i genitori possono scegliere di dare ai figli l’uno, l’altro o entrambi i cognomi nell’ordine che preferiscono; in Inghilterra e Galles le libertà è assoluta, al punto che i genitori possono scegliere il cognome da attribuire non solo tra quelli dei genitori ma anche tra nomi diversi) mentre, a dirla tutta, in Italia non esiste alcuna norma che, in maniera esplicita, impone che i figli abbiano il cognome paterno. Sopperisce tuttavia una radicata consuetudine motivata dal fatto che “Mater semper certa est, pater numquam” e, pertanto, l’attribuzione del cognome ha da sempre rappresentato strumento di riconoscimento formale della paternità.

A tanto si aggiungono, inoltre, principi ricavabili da altre norme: il regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile (art. 33, D.P.R. n. 396/2000), che stabilisce che il figlio legittimato ha il cognome del padre; e quelle del codice civile in tema di filiazione naturale, per cui “il figlio assume il cognome del genitore che per primo lo ha riconosciuto. Se il riconoscimento è stato effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, il figlio assume il cognome del padre” (art. 262 c.c.). Di conseguenza, per la normativa italiana la madre può dare il proprio cognome in modo esclusivo ai figli solo se siano nati fuori del matrimonio e, rispetto al padre, ne abbia effettuato per prima il riconoscimento.

Nel corso del tempo - specie a seguito delle novelle introdotte con la riforma del diritto di famiglia del 1975 – tale modo d’intendere è apparso sempre più come un retaggio, ormai superato, del ruolo preminente della figura maschile all’interno della famiglia e, peraltro, discriminatorio.
Già nel 2014 la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva difatti condannato l’Italia per aver negato a una coppia di genitori la possibilità di attribuire alla figlia il cognome della madre anziché quello del padre, invitandola ad intraprendere adeguate riforme legislative.

Ed invero ad oggi si contano ben sei disegni di legge formulati a riguardo, ma solo lo scorso 15 febbraio la Commissione giustizia al Senato ne ha avviato la discussione, tuttora in corso.

Qualcosa però si era già mosso: con la sentenza n. 286 del 21 dicembre 2016, la Corte Costituzionale aveva giudicato illegittima il citato art. 262 c.c. là dove impone l’attribuzione automatica ed esclusiva del solo cognome paterno in caso di riconoscimento del figlio naturale da parte di entrambi i genitori.

Ed è successo ancora: battendo sul tempo il Parlamento impegnato nel sui iter legislativo, la Corte Costituzionale con una nuova sentenza dello scorso 27 aprile (non ancora depositata ma anticipata da un comunicato stampa) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatismo dell’attribuzione ai figli del cognome del padre anziché quello di entrambi i genitori (con facoltà di sceglierne l’ordine o l’esclusione di uno dei due), in quanto giudicate non solo discriminatorie per contrasto ai principi costituzionali di uguaglianza ma anche lesive dell’identità del figlio.

La decisione era attesa da gennaio, quando la Corte, interpellata dal Tribunale di Bolzano e dalla Corte d'Appello di Potenza (in quest’ultimo caso la questione era stata sollevata su impulso di una famiglia lucana con tre figli, due dei quali con il cognome della madre ed il terzo registrato automaticamente con quello del padre, perché nato dopo che la coppia si era sposata, e senza che a nulla fosse valsa la richiesta dei genitori di registrare anche l’ultimo figlio con cognome materno per rendere tutti uguali i fratelli), aveva deciso con propria ordinanza di sollevare davanti a sé stessa la questione della legittimità costituzionale sull’automatismo acquisitivo del cognome paterno, ritenendola pregiudiziale.

Ma stavolta la Corte è andata anche oltre, poiché, come si accennava, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tutte le norme che prevedono l’automatismo: dunque non solo quelle che riguardano i figli nati fuori dal matrimonio ma anche quelle relative ai nati in costanza di matrimonio e ai figli adottivi.

Dovrà ora essere il legislatore a regolare tutti gli aspetti connessi a tale decisione.

La portata della sentenza può davvero dirsi storica, destinata com’è a demolire, oltre che un complesso di norme datate, il residuo di un’ideologia non più al passo con i tempi, dove alcuni principi, più che sul giudizio, sembravano ormai fondate sul pregiudizio.
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