Recita così un vecchio proverbio che, con spietato realismo, sottolinea una dura e non infrequente verità: spesso sono proprio quei vincoli familiari che dovrebbero presupporre solidarietà e vicinanza a trasformarsi in motivi di sofferenza, astio, gelosia, fino ad arrivare alla rabbia furiosa che può addirittura sfociare in tragedia. Come dire che, più stretta è la parentela tra i litiganti, maggiore sarà l’accanimento che ognuno serberà nei confronti dell'altro.
A confermarlo sono del resto i fatti di cronaca che testimoniano la frequenza con cui liti, dissapori e incomprensioni familiari possono portare a sconcertanti epiloghi, da forme di violenza varia fino addirittura agli assassinii.
Spesso, tuttavia, tali tragici episodi si verificano in assenza di una reciprocità evidente, quando cioè è perlopiù unilaterale l’astio che viene maturato nei confronti dell’altro e, dunque, si agisce a danno del parente con fredda e cinica premeditazione, esasperando una condizione individuale di disagio, incomprensione, risentimento che dall’altra parte viene viceversa avvertita con minor peso e gravità, tanto da non ingenerare il dubbio che possa avere conseguenze straordinarie.
Le note vicende di Erika ed Omar, di Pietro Maso e, più recentemente, quella di Benno Neumair ne sono la prova: odio e risentimento personale che tracimano, divenendo incontrollabili, raggiungendo le loro massime conseguenze perlopiù a causa di un futile motivo – una discussione come tante – che diviene la miccia da cui deflagra il dramma.
Alla base di tali episodi c’è tuttavia, il più delle volte, una compromissione di natura psicologica ed emotiva che assegna ad una patologia o ad un disturbo della personalità il ruolo di movente dell’azione. In quei casi – ed entro precisi e delicati limiti – possono perciò giustificarsi alcune condotte, pur senza negarne la gravità o pretendere che siano perseguite e trattate con minor rigore.
È invece ben più grave e di certo meno accettabile la condotta di chi agisca per tutt’altro motivo – economico, perlopiù – arrivando a pianificare nel dettaglio non solo il delitto compiuto ma anche tutta la sceneggiatura di contorno, dalla farsa della disperazione agli appelli in TV con cui si domanda al pubblico credulone la massima collaborazione nelle ricerche di un parente dato per scomparso, fingendo di ignorarne una sorte di cui si è invece stati responsabili.
È ciò che hanno fatto le sorelle Paola e Silvia Zani che, dopo aver organizzato ed eseguito il delitto della loro madre, Laura Ziliani, hanno avuto la faccia tosta (anzi, mezza, giacché l’altra metà era coperta dalla mascherina) di comparire davanti alle telecamere di “Chi l’ha visto?” per recitare la parte delle figlie disperate ed affrante dal dolore.
Ci sarebbe quasi da sperare che anche stavolta possa riconoscersi l’esistenza di una malattia, di un grave danno psichico, di una “incapacità di intendere e volere” (formula troppo spesso abusata) alla base del loro insano gesto; che, due sue due, entrambe le sorelle, siano affette da un disturbo ben più grave ma meno evidente rispetto a quello che avrebbe posto al centro delle attenzioni della madre l’altra sorella Lucia (cui, nonostante tutto, evidentemente non manca la capacità di riconoscere la loro malvagità), scatenando perciò una sorta di perversa gelosia. Viceversa, a doversi basare unicamente sull’evidenza dei fatti, resterebbe solo l’orrore per la freddezza con cui hanno sedato, soffocato, spogliato e infine occultato il corpo della loro madre, rallegrandosi e complimentandosi reciprocamente al telefono, subito dopo, per la riuscita del loro piano e per la bella vita che, grazie all’eredità acquistata, avrebbero potuto condurre da quel momento in poi.
In “Parenti Serpenti”, il celebre film di Mario Monicelli basato sulla commedia di Carmine Amoroso, la riflessione amara sui legami famigliari, sulla loro falsità e sulla possibilità che l’interesse o il vantaggio trasformino in viscidi e velenosi apparenti sentimenti d’umanità era stata tracciata in maniera efficace e pungente; la banalità con cui può essere concepito e messo in atto il male era stata dipinta con buona credibilità attraverso un catalogo di personaggi grotteschi e surreali.
Ma restava finzione.
Qui, invece, è tutto una dolorosa, tragica ed angosciante realtà, il segnale evidente d’una anestesia sentimentale, d’una eclissi degli affetti, che colloca la condizione umana sull’abisso della sua miseria, rivelando la terribile consapevolezza di una irreversibile perdita dei valori.