Alcune consapevolezze sono talmente evidenti e scontate che a ribadirle viene quasi da sorridere. Eppure talvolta c’è bisogno di farlo, di rivestirle di formule sacramentali volte ad accentuarne l’impatto sulle coscienze e a indurre i comportamenti ad adattarvisi.
È ciò che ho pensato quando ho letto la circolare del Ministro dell’Istruzione dello scorso 19 dicembre riguardo l’uso dei telefoni cellulari in classe e, ancor più, l’allegato che la correda: il rapporto stilato dalla commissione permanente istruzione del Senato sull’indagine conoscitiva condotta riguardo l’impatto del digitale sugli studenti, in particolare sui loro processi d’apprendimento.
La circolare in sé non dice nulla di nuovo, infatti, se non ribadire qualcosa che già con analoga modalità il Ministero aveva indicato nel 2007, allorché aveva introdotto il divieto di utilizzare il cellulare durante le ore di lezione perché ritenuto causa di distrazione dell'utilizzatore e dei compagni nonché segno di grave mancanza di rispetto nei confronti del docente.
Una proibizione ampiamente disattesa, evidentemente, come confermano la circostanza stessa che si sia reso necessario intervenire nuovamente con altra circolare nonché i reiterati e noti episodi di malcostume - frequenti nelle scuole italiane - legati all’abuso del dispositivo.
Ciò che invece impatta maggiormente è il contenuto del documento allegato cui si è fatto cenno, che, con un lessico molto diretto e semplice (e forse per questo più efficace) descrive quali siano gli effetti dell’uso smodato degli smartphone sulla popolazione scolastica (e non solo), azzardando parallelismi molto forti.
Vi si legge difatti: “Ci sono i danni fisici: miopia, obesità, ipertensione, disturbi muscolo-scheletrici, diabete. E ci sono i danni psicologici: dipendenza, alienazione, depressione, irascibilità, aggressività, insonnia, insoddisfazione, diminuzione dell’empatia. Ma a preoccupare di più è la progressiva perdita di facoltà mentali essenziali, le facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza: la capacità di concentrazione, la memoria, lo spirito critico, l’adattabilità, la capacità dialettica...Sono gli effetti che l’uso, che nella maggior parte dei casi non può che degenerare in abuso, di smartphone e videogiochi produce sui più giovani. Niente di diverso dalla cocaina. Stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche.”
Seguono una serie di esempi e di indicazioni statistiche e, ancora, ulteriori descrizioni di evidenze nocive - “il cervello agisce come un muscolo, si sviluppa in base all’uso che se ne fa e l’uso di dispositivi digitali (sociale videogiochi), così come la scrittura su tastiera elettronica invece della scrittura a mano, non sollecita il cervello. Il muscolo, dunque, si atrofizza. Detto in termini tecnici, si riduce la neuroplasticità, ovvero lo sviluppo di aree cerebrali responsabili di singole funzioni” – che si concludono con un allarme che suona quasi come una nefasta profezia: “Per quest’insieme di ragioni, non è esagerato dire che il digitale sta decerebrando le nuove generazioni, fenomeno destinato a connotare la classe dirigente di domani.”
Non credo, in tutta onestà, che possano lamentarsi esagerazioni nel quadro tracciato. Constato quotidianamente quanto sia – ahinoi! – vera l’affermazione che lo smartphone “non è più uno strumento, ma è diventato un’appendice del corpo", soprattutto nei più giovani; “un’appendice da cui, oltre ad un’infinita gamma di funzioni, in larga parte dipendono la loro autostima e la loro identità. È per questo che risulta così difficile convincerli a farne a meno, a mettere da parte il telefonino almeno per un po’: per loro, privarsene è doloroso e assurdo quanto subire l’amputazione di un arto.”
Di conferme della veridicità di tali evidenze ce ne sono a volontà, e troppo spesso si accompagnano anche alla tragica, tardiva. scoperta di condizioni di disagio, fragilità, spersonalizzazione che pongono tanti genitori di fronte alla presa di coscienza di una insospettata estraneità dei propri figli. L’ultimo esempio, in ordine di tempo, è quello di Gaia Randazzo, scomparsa dal traghetto diretto a Palermo su cui era imbarcata con la sua famiglia, che solo dopo quanto emerso dai contenuti scandagliati nel cellulare della figlia hanno sentito minata la loro certezza che si trattasse di una ragazza serena che non avrebbe avuto alcun motivo per compiere un gesto estremo.
C’è tuttavia dell’altro, in quel documento, su cui l’attenzione non è stata richiamata in misura altrettanto incisiva. Si legge nella sua chiosa, prima delle conclusioni, e pare curioso che sia stato trascurato.
Il motivo probabilmente è che rappresenta una critica alle nuove tendenze metodologiche, influenzate dall’utilizzo del digitale, che pare non risponda alle aspettative attese.
“Dal ciclo delle audizioni svolte e dalle documentazioni acquisite” recita il documento, “non sono emerse evidenze scientifiche sull’efficacia del digitale applicato all’insegnamento. Anzi, tutte le ricerche scientifiche internazionali citate dimostrano, numeri alla mano, il contrario. Detta in sintesi: più la scuola e lo studio si digitalizzano, più calano sia le competenze degli studenti sia i loro redditi futuri”. Si ammonisce conseguentemente sulla necessità di “interpretare con equilibrio e spirito critico la tendenza epocale a sopravvalutare i benefici del digitale applicato all’insegnamento.”
Questo, si, ritengo sia un aspetto su cui davvero converrebbe meditare altrettanto seriamente, per non correre il rischio che sia la stessa scuola, con i suoi nuovi strumenti, a rendersi complice dell’impoverimento delle conoscenze.
Non sarebbe un danno meno grave della vaticinata decerebrazione degli studenti italiani.