Serviva una scossa, un segnale forte ed inequivocabile che destasse la politica dall’inamovibile indolenza che talvolta tende ad assumere riguardo a certi temi.
E così è stato.
Perdipiù, il sollecito non è giunto da un’entità politica a sua volta, ma dal massimo organo di controllo e garanzia costituzionale.
Difatti è stata proprio la Corte Costituzionale, pochi giorni fa, a lanciare una sorta di ultimatum per smuovere la «persistente inerzia legislativa» sui temi delicatissimi del fine vita e dei figli di coppie omogenitoriali.
Nel corso della conferenza stampa seguita alla presentazione della relazione annuale della Consulta, svoltasi alla presenza del Capo dello Stato, il Presidente Augusto Antonio Barbero, con una calzante citazione ripresa dal capolavoro beckettiano del teatro dell’assurdo, “Aspettando Godot”, ha esplicato una non più tollerabile condizione d’attesa che va ormai risolta con un tempestivo intervento, al quale – ove permanesse l’inerzia del Parlamento – sarà proprio la stessa Corte Costituzionale a rimediare.
Sono state parole decise ed inequivocabili, con cui è stata anzitutto rivolta alle Camere l’esortazione a dare un seguito alla sentenza n. 242 del 2019, sul fine vita, tenendo conto dei principi affermati in relazione al “caso Cappato”: ciò per evitare che nelle regioni vadano a moltiplicarsi iniziative “a supplenza del Parlamento il cui intervento non è avvenuto.” A riguardo Barbero ha sottolineato che “non si può non manifestare un certo rammarico” perché nei casi più significativi il legislatore non è intervenuto, “rinunciando ad una prerogativa che ad esso compete”, così obbligando la Corte Costituzionale a procedere con una propria e autonoma soluzione, “inevitabile in forza dell’imperativo di osservare la Costituzione.”
Con lo stesso monito è stata richiamata l’attenzione pure sull’altro tema scottante del riconoscimento dei figli delle coppie dello stesso sesso, per il quale, in assenza di un intervento strutturato, si sta assistendo ad un “disordinato e contraddittorio intervento dei sindaci preposti ai registri dell’anagrafe”.
Il protratto silenzio del legislatore ha purtroppo procurato queste derive e, se è vero – ha proseguito il Presidente Barbero – che l'attività del Parlamento non è un'attività 'servente', se permane la sua inerzia, allora “la Corte a un certo punto non potrà non intervenire a difesa di quei diritti che vengono invocati attraverso i giudizi in via incidentale”.
Da un lato, dunque, ci sono il rimprovero e la sollecitazione rivolti all’indirizzo del Parlamento, dall’altra, anche l’impegno e la determinazione della Consulta a non sottrarsi alle proprie responsabilità ove - anche tramite azioni di disobbedienza civile messe in atto dalle varie associazioni che, sui cennati temi, reclamano interventi strutturati e definitivi - siano sollevati dubbi di costituzionalità per mancati interventi.
Quanto siano stati efficaci tali richiami della Consulta (peraltro non nuova ad aver sollecitato la definizione delle invocate leggi) è però presto a dirsi, giacché per il momento sembrano permanere indecisioni, rivisitazioni e ostacoli che tardano le conclusioni invocate.
E difatti, sul fine vita è proprio di queste ore, mentre scrivo, la notizia d’una ennesimo rimando: i senatori delle Commissioni giustizia e Affari sociali, presso le quali lo scorso 26 marzo si sarebbero dovuti illustrare i contenuti di due DDL in materia (uno, con etichetta Pd, a firma Bazoli, più aderente ai princìpi sanciti dalla soprarichiamata sentenza n. 242/2019 della Corte costituzionale; l’altro, targato FdI, a firma Paroli, che invece si discosta da quei principi) hanno ricevuto, pochi minuti prima dell’inizio della seduta, l’avviso che le predette commissioni erano state sconvocate per un’improvvisa indisponibilità del governo (la cui presenza è necessaria in tutto l'iter parlamentare).
Quindi, ancora nessuna calendarizzazione dei lavori; nessuna esposizione di relazioni introduttive; nessun inizio. Le premesse non sono delle migliori.
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