Non sono dovute le imposte di registro e catastali per i trasferimenti immobiliari alla prole effettuati dai coniugi in esecuzione dell’accordo formalizzato nella sentenza giudiziale di divorzio.
È quanto emerge dall’Ordinanza n. 31603/2018 della Sezione Tributaria della Corte di Cassazione, che dà definitivamente ragione a due ex coniugi che hanno provveduto, in esecuzione della sentenza giudiziale di divorzio, al trasferimento a favore del loro unico figlio della nuda proprietà riguardante una pluralità d’immobili in regime di esenzione da imposte di registro e ipo-catastali.
In base all’articolo 19 della L. n. 74 del 1987, tutti gli atti, i documenti e i provvedimenti relativi al procedimento di scioglimento del matrimonio o di cessazione degli effetti civili del matrimonio nonché ai procedimenti anche esecutivi e cautelari diretti a ottenere la corresponsione o la revisione degli assegni di cui agli articoli 5 e 6 della L. n. 898 del 1970, sono esenti dall'imposta di bollo, di registro e da ogni altra tassa.
Nel caso sottoposto all’attenzione della Suprema Corte, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, a conferma della decisione di primo grado, ha ritenuto illegittimo l’avviso di liquidazione notificato dall’Agenzia delle Entrate ai contribuenti e al Notaio, posto che il trasferimento all’unico figlio della nuda proprietà di una pluralità d’immobili era avvenuto in ragione di quanto previsto nella sentenza di divorzio e avendo in quella sede gli stessi contribuenti dichiarato di voler beneficiare di quanto disposto dall'art. 19 L. n. 74/1987.
Nella sentenza divorzile, il Tribunale ha stabilito: «nell'ambito degli odierni accordi, presi ai sensi dell'art. 5 della L. n. 898 del 1987 il sig. (...) si obbliga a trasferire al figlio (...) la nuda proprietà della quota di 1/5 (riservandosi l'usufrutto vitalizio) dei seguenti immobili. Segue l'elenco degli immobili di cui si trasferisce per 1/5 la nuda proprietà».
L'Ufficio, però, ha sostenuto l’inapplicabilità del richiamato regime di esenzione, poiché il trasferimento immobiliare, per il quale l'avviso di liquidazione impugnato aveva disposto l'assoggettamento alla tassazione ordinaria, non era conseguenza diretta dell'avvenuto scioglimento della comunione legale tra i coniugi, ma integrava un mero atto di liberalità del padre, in favore del figlio, solo occasionalmente generato dalla separazione personale tra i coniugi e formalizzato nella sentenza divorzile.
Ebbene, con l’ordinanza in esame, la Suprema Corte ha confermato la decisione della C.T.R. meneghina, impugnata dalla difesa erariale, sul rilievo che il ricorso per cassazione dell’ufficio «non riporta, nei contenuti essenziali, il testo degli accordi intervenuti tra i coniugi in sede divorzile, e tanto si rendeva viepiù necessario, alla luce del mutamento d'indirizzo della giurisprudenza di questa Corte, maturato in ragione dell'evoluzione del quadro normativo di riferimento, caratterizzato da interventi di cosiddetta "degiurisdizionalizzazione", i quali hanno fortemente valorizzato l'accordo tra le parti nella definizione della crisi coniugale, che ha fatto registrare un sostanziale superamento della distinzione tra contenuto necessario (artt. 156 c.c., ultimo comma, e 710 c.p.c.), e contenuto eventuale (art. 1372 c.c.) degli accordi di separazione, nel primo dovendosi ricomprendere il consenso reciproco a vivere separati, l'affidamento dei figli, l'assegnazione della casa familiare in funzione del preminente interesse della prole e la previsione di assegno di mantenimento a carico di uno dei coniugi in favore dell'altro, ove ne ricorrano i presupposti, nel secondo, invece, quei patti che trovano solo occasione nella separazione, trattandosi di accordi patrimoniali del tutto autonomi, che i coniugi concludono in relazione all'instaurazione di un regime di vita separata (Cass. n. 2111/2016, sul carattere di "negoziazione globale" attribuito alla liquidazione del rapporto coniugale per il tramite di contratti tipici in funzione di definizione non contenziosa, ma anche Cass. n. 16348/2013, Cass. n. 5924/2013, e Cass. n. 13340/2016, quest'ultima, in fattispecie relativa alla decadenza dai benefici "prima casa")».
La Suprema Corte, dunque, ha dichiarato inammissibile il ricorso e condannato la ricorrente Agenzia delle Entrate al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.