Con riferimento agli immobili locati per fini diversi da quello abitativo, nel caso di risoluzione consensuale dell'accordo contrattuale con efficacia “ex tunc”, i canoni non percepiti per morosità costituiscono, comunque, reddito tassabile, perché l’efficacia retroattiva espressamente attribuita dalle parti all’accordo risolutivo non può pregiudicare la legittima pretesa impositiva maturata medio tempore.
È quanto emerge dalla Sentenza n. 348/2019 della Quinta Sezione Civile della Corte di Cassazione.
Il caso. Oggetto del giudizio è un avviso di accertamento per maggiore Irpef per l’anno 2000 in relazione a canoni di locazione non dichiarati.
Il suddetto atto impositivo è stato emesso con riguardo a un immobile commerciale locato a una S.r.l. di cui erano soci al 50% i due comproprietari dello stesso immobile.
Il giudizio è stato intrapreso da uno soltanto dei due comproprietari, che ha fatto presente di non aver mai percepito alcun canone locatizio, onde nella Dichiarazione dei Redditi era stato dichiarato unicamente il reddito catastale dell'immobile de quo, e di avere, successivamente all'accertamento dell'Agenzia delle Entrate, notificato nel 2006, comunicato la risoluzione del contratto di locazione con effetto retroattivo a far tempo dall'11.06.2000. In relazione a tale dichiarazione era stata corrisposta l'imposta di registro.
L'Ufficio ha sostenuto che «il riferimento al canone di locazione opera fino a quando è in vita il contratto, risolto con effetti irretroattivi dal 27/10/2006». E tuttavia, in sede di autotutela, ha disposto l’annullamento degli avvisi di accertamento per alcune annualità, assumendo una diversa determinazione soltanto per l’anno d’imposta 2000.
Ebbene, la Suprema Corte ha considerato legittimo l’operato dell’Ufficio finanziario riguardo all’annualità d’imposta per la quale la pretesa non è stata annullata in autotutela.
Pertanto, il Collegio di legittimità ha confermato la sentenza di secondo grado già favorevole all’erario.
Principi di diritto. Nel respingere il ricorso del contribuente, gli Ermellini, in particolare, hanno evidenziato che, in base al combinato disposto dagli artt. 23 e 34 del D.P.R. n. 917 del 1986 ratione temporis vigente, il reddito degli immobili locati per fini diversi da quello abitativo - per i quali opera, invece, la deroga introdotta dall'art. 8 L. n. 431 del 1998 - è individuato in relazione al reddito locativo fin quando risulta in vita un contratto di locazione, con la conseguenza che anche i canoni non percepiti per morosità del conduttore costituiscono reddito tassabile, fino a che non sia intervenuta la risoluzione del contratto o un provvedimento di convalida dello sfratto (Sez. 6 - 5, n. 19240/2016).
Con specifico riferimento all'ipotesi di scioglimento o risoluzione del contratto per mutuo consenso, secondo l'art. 1458, comma 1, cod. civ. (dettato in tema di risoluzione per inadempimento ma applicabile, salva diversa volontà delle parti, anche alla risoluzione consensuale), nei contratti a esecuzione continuata o periodica l'effetto della risoluzione non si estende alle prestazioni già eseguite, cosicché non viene meno l'obbligo di pagamento del canone di locazione per il periodo, precedente alla risoluzione, durante il quale il conduttore ha goduto (o avrebbe potuto godere) della disponibilità dell'immobile locato. Il secondo comma dell'art. 1458 cod. civ. prevede, inoltre, che la risoluzione, anche se è stata espressamente pattuita, non pregiudica i diritti acquistati dai terzi, salvi gli effetti della trascrizione della domanda di risoluzione.
In tale quadro normativo, con riferimento alla sottoipotesi di accordo risolutivo al quale le parti abbiano espressamente attribuito efficacia retroattiva, una pronuncia della Suprema Corte (Cass. Sez. 5, n. 24444/2005) ha affermato che «il solo fatto della intervenuta risoluzione consensuale del contratto di locazione, unito alla circostanza del mancato pagamento dei canoni relativi a mensilità anteriori alla risoluzione, non è idoneo di per sé ad escludere che tali canoni concorrano a formare la base imponibile IRPEF, ai sensi dell'art. 23 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, salvo che non risulti la inequivoca volontà delle parti di attribuire alla risoluzione stessa efficacia retroattiva»; in tale ultimo caso, la stessa decisione ha sottolineato che resta «impregiudicata, peraltro, ogni valutazione in ordine alla opponibilità di tale eventuale retroattività all'Amministrazione finanziaria».
Proprio con riferimento al profilo dell'opponibilità dell'accordo risolutorio all'Amministrazione finanziaria, è stato espresso l’orientamento – che la Sent. n. 348/2019 condivide - che l'ipotesi di successiva risoluzione dell'accordo contrattuale per mutuo dissenso, ai sensi dell'art. 1372, comma 2, cod. civ. «non può avere alcuna rilevanza nei confronti dei terzi ed a maggior ragione quindi, nei confronti dell'Erario», non potendo, in particolare, pregiudicare la legittima pretesa impositiva medio tempore maturata per effetto di patti sopravvenuti tra le parti (v., tra le altre, Cass. Sez. 5 n. 9445/2014); conclusione, questa - chiosano gli Ermellini - «rispetto alla quale neppure può assumere rilevanza, e tanto meno configurare la violazione degli artt. 3 e 111 Cost., la mera circostanza che l'Ufficio, esercitando i propri poteri di autotutela, abbia ritenuto di annullare altri accertamenti, nei confronti di soggetto diverso dell'odierno ricorrente o in relazione ad altre annualità».
Il ricorrente è stato conseguentemente condannato al pagamento delle spese dell’ultimo grado di giudizio, liquidate in complessivi euro 2.500,00, oltre spese prenotate a debito.