Con l’Ordinanza n. 31155 del 3 dicembre 2018, la Corte di Cassazione ha statuito che è legittimo il licenziamento disciplinare disposto nei confronti di un dipendente che ha aggredito verbalmente il suo responsabile, dal momento che tale comportamento viola gli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione, cui il lavoratore è tenuto.
La vicenda trae origine dal ricorso presentato dal un lavoratore, licenziato per aver minacciato di morte il proprio responsabile.
Più in particolare, il lavoratore - proponendo appello alla pronuncia di primo grado in cui era risultato soccombente - aveva ottenuto la revoca del licenziamento disciplinare per giusta causa, ed il diritto ad essere reintegrato nel posto di lavoro.
La società datrice di lavoro era stata, altresì, condannata a corrispondere al lavoratore una indennità risarcitoria pari a 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Il pronunciamento dei Giudici di seconde cure si basava sull’assunto dell’insussistenza del fatto contestato, in quanto “l’unica condotta in astratto disciplinarmente rilevante (minaccia rivolta al responsabile della sede, consistita nell’avere proferito le seguenti parole: “Tanto prima o poi io ti crepo”) non presentava, a parere dei giudici di seconde cure, quelle condizioni minime di serietà per potere essere valutata idonea a interrompere il vincolo fiduciario tra le parti”.
In sostanza, secondo i Giudici della Corte di Appello, la minaccia rivolta dal lavoratore nei confronti del proprio responsabile non doveva essere considerata lesiva del rapporto fiduciario in quanto non presentava il carattere della serietà.
Avverso la decisione di secondo grado, ritenendo legittime le proprie ragioni, la società datrice di lavoro ha proposto ricorso per Cassazione.
Ebbene, i Supremi Giudici hanno accolto il ricorso presentato dalla società e cassato la sentenza di appello.
Secondo la Corte di Cassazione i Giudici di appello, “con una motivazione assertiva e, quindi, sostanzialmente apparente della ravvisata esclusione di serietà e gravità della minaccia di morte, non hanno operato una corretta valutazione del comportamento reiterato del lavoratore il quale (…) ha ritenuto di profferire una minaccia di morte, “a freddo”, al di fuori di un contesto di una conversazione animata, nei confronti di un direttore responsabile suo superiore, in una situazione di conflittualità di rapporti lavorativi già riscontrati più volte dalle autorità penali in senso negativo per il lavoratore”.
Gli ermellini hanno rilevato che la minaccia grave determina un turbamento nel soggetto passivo e non è necessaria che sia circostanziata potendo benissimo, ancorché pronunciata in modo generico, produrre una alterazione psichica, avuto riguardo alla personalità dei soggetti coinvolti.
A parere della Suprema Corte “l’effetto della minaccia è quello della sua idoneità ad incutere timore nel soggetto passivo, menomandone la sfera della libertà morale. (…) Pronunciata, poi, in un ambiente lavorativo, è necessario considerare, ai fini di un giudizio sulla serietà della minaccia, l’effetto gravemente destabilizzante sull’attività aziendale, allorquando l’episodio diventa pubblico nell’ambiente lavorativo, nonché di considerare che comunque essa rappresenta intrinsecamente una violazione degli obblighi di collaborazione, fedeltà e subordinazione, cui è tenuto il lavoratore nei confronti di un suo superiore".
In sostanza, secondo la Cassazione, il comportamento tenuto dal lavoratore nel minacciare il proprio responsabile è sufficiente a rompere quel rapporto di fiducia necessario per l’instaurarsi di un rapporto lavorativo che si fonda su principi di collaborazione, fedeltà e subordinazione.
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