Se il contribuente che svolgeva attività libero professionale indipendente da quella dello studio associato presso il quale prestava la propria opera non ha tuttavia provato ciò, va assoggettato ad Irap.
È questo, in estrema sintesi, il pensiero espresso dalla Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 766 del 15 gennaio 2019.
Il fatto
Il professionista ricorre per la cassazione della sentenza della CTR che aveva respinto l’appello del contribuente avverso la sentenza della CTP, che a sua volta aveva rigettato il ricorso del medesimo avverso il silenzio rifiuto opposto dall’Agenzia delle Entrate all’istanza di rimborso dell’IRAP da lui versata negli anni dal 2003 al 2005.
Le doglianze di parte
Il ricorrente lamenta la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, di norme di diritto sostanziale, avendo la C.T.R. ravvisato, nella sua attività di libero professionista (commercialista), svolta anche in forma associata, la sussistenza del presupposto dell’autonoma organizzazione richiesto per l’applicazione dell’IRAP ai sensi dell’art. 2, del D.lgs. n. 446 del 1997, pur avvalendosi egli di collaboratori e beni strumentali in assenza di una sia pur minima organizzazione, ritenendo altresì inidonea la documentazione prodotta dal contribuente ai fini della prova contraria. Inoltre, il ricorrente articola un vizio motivazionale, ex art. 360 c.p.c., n. 5, sempre con riguardo alla ritenuta mancata dimostrazione della mancanza dell’autonoma organizzazione.
Il pensiero della Corte
Per gli Ermellini – che richiamano precedenti pronunce (Cass. nn. 25311/2014; 16784/2010; 13570/2007) - le censure non trovano fondamento, avendo questa Corte affermato che “qualora il professionista (nella specie, commercialista) sia inserito in uno studio associato, sebbene svolga anche una distinta e separata attività professionale, diversa da quella svolta in forma associata, è tenuto a dimostrare, al fine di sottrarsi all’applicazione dell’Irap, di non fruire dei benefici organizzativi recati dalla sua adesione alla detta associazione che, proprio in ragione della sua forma collettiva, normalmente fa conseguire ai suoi aderenti vantaggi organizzativi e incrementativi della ricchezza prodotta (ad es. le sostituzioni in attività – materiali e professionali – da parte di colleghi di studio; l’utilizzazione di una segreteria o di locali di lavoro comuni; la possibilità di conferenze e colloqui professionali o altre attività allargate; l’utilizzazione di servizi collettivi e quant’altro caratterizzi l’attività svolta in associazione professionale)”.
Per la Corte, la sentenza della C.T.R., avendo affermato che il ricorrente svolgeva attività libero professionale indipendente da quella dello studio associato presso il quale prestava la propria opera e che egli non aveva tuttavia “assolto all’onere probatorio sopra descritto […] (non avendo) […] allegato e provato […] (di aver) […] conseguito i suddetti redditi in modo completamente avulso dagli ausili concretamente ritraibili dalla struttura organizzativa dello studio associato presso il quale egli svolgeva la propria attività professionale”, è conforme ai suddetti principi di diritto.
La stessa Corte precisa che le doglianze investono esclusivamente una pretesa errata valutazione della prova, asseritamente favorevole al contribuente, che sarebbe contenuta nei “quadri RE del Modello Unico”, nel “prospetto riepilogativo dei redditi assoggettati ad IRAP” e dalla “copia delle relative fatture”, documenti il cui contenuto non è stato trascritto in ricorso, con conseguente rigetto del motivo di ricorso in questione.
La Corte rigetta, quindi, e condanna il ricorrente al pagamento, in favore dell’Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 2.300,00 per compensi professionali, oltre alle spese prenotate a debito.
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