28 gennaio 2019

Mantenimento del fallito. Rischio bancarotta distrattiva post-fallimentare

Non è necessaria la prova del dolo specifico, ossia dello scopo di recare pregiudizio ai creditori

Autore: Paola Mauro
Il trattenimento da parte del fallito dei proventi della sua attività lavorativa integra il reato di bancarotta post-fallimentare esclusivamente per la parte di guadagno che ecceda i limiti di cui all'articolo 46 L. Fall. anche a prescindere dal fatto che questi non siano stati previamente determinati dal Giudice delegato al fallimento, nel qual caso a tale determinazione deve procedere incidentalmente il Giudice penale.

Ai fini del reato di bancarotta fraudolenta distrattiva, anche post-fallimentare, è sufficiente il dolo generico consistente nella consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte.

Questi principi si evincono dalla Sentenza n. 1295/2019 della Quinta Sezione Penale della Corte di Cassazione, depositata l’11 gennaio.

Il caso.La pronuncia in esame si riferisce al socio illimitatamente responsabile di una S.n.c., dichiarata fallita, che, senza autorizzazione del Giudice delegato, ha trattenuto parte del corrispettivo per l'attività svolta alle dipendenze della società.

In ragione della suddetta condotta distrattiva, all’esito del giudizio di appello, l’uomo è stato condannato alla pena di due anni di reclusione, previa concessione delle attenuanti generiche, per il reato di bancarotta fraudolenta post-fallimentare, ai sensi dell'articolo 216, comma secondo, in relazione al comma primo, n.1, Legge Fall.

Per quanto è qui d’interesse, nel giudizio in Cassazione a nulla è valso all’imputato dedurre la violazione della legge penale, per avere il Giudice di merito escluso che il reato di bancarotta fraudolenta distrattiva richieda il dolo specifico e l'intento di offendere le ragioni dei creditori fallimentari.

Reato a dolo generico. Nel rigettare la doglianza dell’imputato riguardante l’elemento psicologico del reato, la Suprema Corte ha osservato che l'art. 2161, comma secondo, Legge Fall., in tema di bancarotta fraudolenta post-fallimentare estende le stesse pene previste dal primo comma dello stesso articolo all'imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, distragga, occultati, dissimuli, distrugga o dissipi in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, esponga o riconosca passività inesistenti, oppure sottragga, distrugga o falsifichi i libri o le altre scritture contabili.

Le Sezioni Unite hanno stabilito che «l'elemento soggettivo del delitto di bancarotta fraudolenta per distrazione è costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato di insolvenza dell'impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni contratte» (Sez. U pen., n. 22474 del 2016).

Tale orientamento è stato sviluppato essenzialmente in tema di bancarotta fraudolenta patrimoniale pre-fallimentare, ma - stando alla pronuncia in esame - il richiamo normativo operato dal secondo al primo comma dell'art. 216 consente all'interprete di mutuare de plano gli stessi principi in tema di elemento soggettivo del reato.

Costituisce, pertanto, bancarotta fraudolenta patrimoniale post-fallimentare il fatto del fallito che distragga, occulti, dissimuli, distrugga o dissipi in tutto o in parte i suoi beni. Al riguardo, non è richiesto alcun dolo specifico, ma solo la consapevolezza e la volontà delle condotte distrattive; diversamente per l'ipotesi dell'esposizione o del riconoscimento di passività inesistenti, la legge richiede il dolo specifico dello scopo di recare pregiudizio ai creditori.

Alla luce di quanto sopra gli Ermellini hanno giudicato corretto il giudizio di responsabilità formulato dalla Corte di merito rispetto alla condotta di trattenimento, da parte del fallito, delle somme a titolo di retribuzione in misura superiore allo standard suscettibile di lecita ritenzione.

Rigetto del ricorso. Ad avviso dei Massimi Giudici, la Corte di merito ha giustamente ritenuto che fosse sufficiente il dolo generico, ossia la consapevolezza dell'agente di imprimere alle somme percepite (o più esattamente a una loro parte) una destinazione diversa da quella prevista di soddisfacimento degli interessi dei creditori fallimentari.

I Giudici di appello, poi, si sono attenuti scrupolosamente all’indirizzo giurisprudenziale maggioritario, laddove hanno ritenuto che il fallito «potesse legittimamente trattenere, a fronte di una retribuzione netta media mensile di €1.644,35, la somma di € 1.244,35 e dovesse quindi versare mensilmente nelle casse fallimentari la somma di € 400,00».

Beni non compresi nel fallimento. L'articolo 462 L. Fall. esclude dal fallimento, tra l'altro, «gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, pensioni, salari e ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia», ma stabilisce che i predetti limiti debbano essere fissati con decreto motivato del Giudice delegato che deve tener conto della condizione personale del fallito e di quella della sua famiglia.

Trattenimento dei proventi dell’attività lavorativa.La giurisprudenza di legittimità si è orientata ad ammettere la valutazione incidentale ex post, da parte del Giudice penale, dell'entità delle somme corrispondenti alle esigenze di mantenimento del fallito e del suo nucleo familiare, nell'ipotesi in cui – come nel caso in esame - la prescritta autorizzazione del Giudice delegato non sia stata richiesta.

Si è affermato di conseguenza che il trattenimento da parte del fallito dei proventi della sua attività lavorativa integra il reato di bancarotta post- fallimentare esclusivamente per la parte di guadagno che ecceda i limiti di cui all'art. 46 L. Fall. anche a prescindere dal fatto che questi non siano stati previamente determinati dal Giudice delegato al fallimento, nel qual caso a tale determinazione deve procedere incidentalmente il Giudice penale (Cass. pen. Sez. 5, n. 24493/2013 e n. 16606/2010).

Spetta al prudente apprezzamento del Giudice penale fissare la quota dei proventi necessari al mantenimento del fallito o della sua famiglia, che non deve essere conferita al fallimento. I parametri cui il Giudice a tal fine deve fare riferimento non sono le esigenze meramente alimentari, bensì quelle correlate ai presupposti che costituiscano incentivo all'impegno del fallito in attività produttive e reddituali che lo sottraggano dal ricorrere al sussidio alimentare (Cass. pen. Sez. 5, n. 38244/2004).

Ebbene, nel caso di specie, a giudizio della Suprema Corte, i Giudici del merito si sono conformati scrupolosamente a tale indirizzo giurisprudenziale.
Ne è conseguito il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità.

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1Regio Decreto 16/03/1942 n. 267 - Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa.
Art. 216. Bancarotta fraudolenta.
«È punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore, che:
1. ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;
2. ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.
La stessa pena si applica all'imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.
È punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.
Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l'inabilitazione all'esercizio di una impresa commerciale e l'incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa».

2Regio Decreto 16/03/1942 n. 267 - Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell'amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa.
Art. 46. Beni non compresi nel fallimento.
In vigore dal 16 luglio 2006
«Non sono compresi nel fallimento:
1) i beni ed i diritti di natura strettamente personale;
2) gli assegni aventi carattere alimentare, gli stipendi, pensioni, salari e ciò che il fallito guadagna con la sua attività entro i limiti di quanto occorre per il mantenimento suo e della famiglia;
3) i frutti derivanti dall'usufrutto legale sui beni dei figli, i beni costituiti in fondo patrimoniale e i frutti di essi, salvo quanto è disposto dall’articolo 170 del codice civile;
4) (soppresso);
5) le cose che non possono essere pignorate per disposizione di legge.
I limiti previsti nel primo comma, n. 2), sono fissati con decreto motivato del giudice delegato che deve tener conto della condizione personale del fallito e di quella della sua famiglia».
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