24 febbraio 2018

Nullità della cessione del ramo d’azienda la competenza al giudice del lavoro

Autore: FEDERICO GAVIOLI
La Corte di Cassazione con la sentenza n. 1646, del 23 gennaio 2018, ha affermato che è di competenza del giudice del lavoro la causa sulla nullità della cessione del ramo d’azienda anche se la cessionaria è fallita.

Il contenzioso - Con sentenza dell’agosto 2012, la Corte d'appello accertava la sussistenza senza soluzione di continuità del rapporto di lavoro nei confronti di alcuni dipendenti di una società e condannava la stessa società alla loro riassunzione; i giudici del merito di secondo grado avevano riformato la sentenza del tribunale che aveva rigettato le domande dei tre lavoratori per nullità, inefficacia o illegittimità della propria assegnazione al ramo d'azienda e quella della cessione del preteso relativo ramo d'azienda e comunque del proprio contratto di lavoro dalla predetta società ad una SRL , con accertamento della sussistenza senza soluzione di continuità del rapporto di lavoro con la prima e con condanna al relativo ripristino.

I giudici del merito della Corte territoriale disattendevano in via preliminare l'eccezione di improcedibilità sollevata dalla società nei confronti delle domande dei lavoratori in quanto attratte al foro concorsuale per la dichiarazione di fallimento della cessionaria nelle more del giudizio di impugnazione, interrotto e tempestivamente riassunto nei confronti della curatela fallimentare; i giudici del merito, infatti, hanno affermato la cognizione del giudice del lavoro perché l'oggetto delle domande non era strumentale ad una pretesa economica nei confronti della procedura, né incideva sul patrimonio destinato ai creditori.
Nel merito, essa escludeva nell'operazione la configurabilità della cessione di un ramo d’azienda, in difetto del requisito di preesistenza (presupposto necessario anche a norma del novellato testo dell'art. 2112, quinto comma, ult. parte c.c.) per la discontinuità della sua attività presso la cessionaria, neppure essendo stata trasferita l'intera lavorazione: con la conseguenza del ripristino, senza soluzione di continuità, del rapporto di lavoro con la cedente dei tre lavoratori, in assenza del loro consenso alla cessione del loro contratto di lavoro alla società poi fallita.

Il ricorso della società - La società ha impugnato il provvedimento della Corte territoriale con una articolata serie di motivazioni; di seguito si riassumono alcuni punti ritenuti di maggior interesse ai fini del commento in questione:
  1. con il primo motivo, la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 24 della L. fall., per improcedibilità delle domande per incidenza degli effetti della nullità della cessione di ramo d'azienda e del ripristino del rapporto di lavoro con la cedente sul patrimonio del fallimento della cessionaria, al cui stato passivo in particolare erano stati ammessi crediti dei tre lavoratori a titolo di differenze retributive, indennità di mancato preavviso e T.f.r. maturato suscettibili di venir meno;
  2. con il secondo motivo, la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 c.c., 115, 116 c.p.c., per la mancata indicazione delle ragioni di esclusione delle istanze istruttorie dedotte e degli elementi di formazione del convincimento decisorio;
  3. con il terzo motivo, la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art 112 c.p.c., per omessa pronuncia sulla domanda di nullità della cessione del ramo d'azienda;
  4. con il quarto motivo, la società ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 113 c.p.c., 2112 e 1406 c.c., per esclusione della nullità della cessione del ramo d'azienda in difetto del requisito di preesistenza, in quanto non più necessario a norma del novellato testo dell'art. 2112, quinto comma, ult. parte c.c. e in presenza di una lieve modificazione dell'attività dei lavoratori con esso trasferiti.

L’analisi della Cassazione - I giudici di legittimità evidenziano preliminarmente che è corretta l'esclusione della devoluzione cognitoria al giudice fallimentare delle domande in questione.
La Cassazione al riguardo, chiarisce come il “discrimen” tra le due sfere di cognizione sia ravvisabile nell’individuazione delle rispettive speciali prerogative:
  • del giudice del lavoro, quale giudice del rapporto e pertanto delle controversie aventi ad oggetto lo status del lavoratore, in riferimento ai diritti di corretta instaurazione, vigenza e cessazione del rapporto, della sua qualificazione e qualità, miranti a pronunce di mero accertamento oppure costitutive (come quelle di annullamento del licenziamento e di reintegrazione nel posto di lavoro), in quanto appartenenti alla cognizione speciale propria di tale giudice;
  • del giudice fallimentare, quale giudice del concorso, nel senso dell’accertamento e della qualificazione dei diritti di credito dipendenti da rapporto di lavoro, in funzione della partecipazione al concorso e con effetti esclusivamente endoconcorsuali, a norma dell’art. 96, ult. comma Legge fall., ovvero destinate comunque ad incidere sulla procedura concorsuale e che, pertanto, devono essere esaminate nell'ambito di quest'ultima per assicurarne l'unità e per garantire la parità tra i creditori.

Per la Corte di Cassazione in esatta applicazione dei citati principi di diritto nell’interpretazione delle domande dei lavoratori, la Corte territoriale ha ritenuto la domanda "strumentale soltanto all'accertamento della continuità del rapporto di lavoro degli appellanti con la società cedente e alla condanna della stessa al ripristino del rapporto", sicché "l'accertamento richiesto non costituisce ... premessa di una pretesa economica nei confronti della massa fallimentare", neppure potendo "ritenersi che la statuizione richiesta sia destinata a ripercuotersi sul riassetto delle componenti patrimoniali accertate nell'ambito della procedura concorsuale, potendo derivare due appellanti alle dipendenze di beni strumentali ceduti".

La Corte di Cassazione nel rigettare il ricorso afferma che deve essere esclusa la validità della cessione del ramo d’azienda quando la struttura ceduta è stata artificialmente attuata dal datore di lavoro e non è inerente a “una entità economica dotata di autonoma ed obiettiva funzionalità preesistente”.
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