La Terza Sezione Penale della Corte di Cassazione, nella
sentenza n. 8995/2018, ha precisato che:
- il mero inadempimento fiscale non integra, in capo al liquidatore, il reato di cui all’art. 10-bis del D.lgs. n. 74 del 2000, occorrendo la prova che l’attivo della società è stato destinato a scopi differenti dal pagamento delle ritenute;
- in ogni caso il provvedimento di sequestro preventivo disposto in relazione al reato addebitato al liquidatore, quale sostituto d’imposta, non può avere a oggetto le somme riversate sul contro corrente intestato al concordato preventivo.
La controversia, in sintesi, riguarda il liquidatore di una società ammessa al concordato preventivo il quale ha ottenuto dal Tribunale del Riesame la revoca del sequestro preventivo, finalizzato alla confisca, riguardante una ingente somma (365.000 euro) presente sul conto intestato alla procedura.
La misura era stata disposta in relazione al reato di omesso versamento di ritenute certificate, ex art. 10-bis D.Lgs. n. 74/2000, e, ad avviso del P.M., nell’annullare il provvedimento, il Tribunale sarebbe incorso nella violazione degli artt. 321 c.p.p., 322 c.p. e 168 L.fall.
La Suprema Corte è giunta a una differente conclusione.
Gli Ermellini ribadiscono (vedi in precedenza Cass. pen. Sez. III n. 21987/2016) che:
- il liquidatore di società risponde del delitto di omesso versamento delle ritenute certificate, previsto dall'art. 10-bis del D.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, non per il mero fatto del mancato pagamento, con le attività di liquidazione, delle imposte dovute per il periodo della liquidazione medesima e per quelli anteriori, ma solo qualora distragga l'attivo della società in liquidazione dal fine di pagamento delle imposte e lo destini a scopi differenti.
Ebbene, nel caso di specie, il giudice di merito ha avuto a sua disposizione numerosi elementi per escludere la responsabilità del liquidatore, nei termini sopra indicati.
In ogni caso, anche laddove il P.M. avesse avuto ragione a sostenere l’esistenza di elementi indicativi del
fumus commissi delicti, l’infondatezza del ricorso, per gli Ermellini, resta, perché il sequestro è ricaduto su somme
alle quali non poteva riconoscersi la natura di “profitto” del reato.
I Massimi Giudici rilevano che è incontroverso che la misura abbia attinto somme presenti sul conto corrente intestato al concordato preventivo e, più in particolare, la somma di euro 365.274,00
riversata da terzi in esecuzione del concordato preventivo e, soprattutto, non sussistente al momento della scadenza del 19/09/2014 - data in cui, secondo l’accusa, si sarebbe perfezionalo il reato. Ciò denota l’esistenza della prova che la somma sottoposta a sequestro
non derivava in alcun modo dal reato tributario e, quindi, non poteva rappresentare
«il risultato della mancata decurtazione del patrimonio quale conseguenza del mancato versamento delle imposte (ovvero, in altri termini, del “risparmio di imposta” nel quale la giurisprudenza ha costantemente identificato il profitto dei reati tributari)», per cui la stessa non era sottoponibile a sequestro difettando la caratteristica di profitto
, «pur sempre necessaria per potere procedere, in base alla definizione e ai principi di carattere generale, ad un sequestro, come quello di specie, in via diretta».
La Suprema Corte, in definitiva, ha disposto il rigetto del ricorso proposto dal P.M.