Il curatore che fa protrarre eccessivamente la procedura fallimentare, tanto da determinare una richiesta di equa riparazione, ai sensi della Legge n. 89/2001 (c.d. Legge Pinto), da parte del fallito, è tenuto a risarcire il danno arrecato alle casse dello Stato. Lo ha stabilito la Corte dei conti, sezione giurisdizionale della Sicilia, con la sentenza 28 ottobre 2013, n. 3161. I giudici contabili hanno accolto il ricorso della Procura, riconoscendo la colpa grave del professionista.
Il fallito che chiede l’equo indennizzo. La controversia trae origine dalla sentenza della Corte d’appello di Caltanissetta che ha accolto la domanda di equa riparazione formulata del sig. X per la non ragionevole durata della procedura fallimentare aperta a suo carico, quale esercente attività di bar - pasticceria. I giudici territoriali, dopo aver constato che la procedura si sarebbe potuta concludere tranquillamente in cinque anni (considerata la presenza in attivo solo di pochi beni mobili), mentre la durata non ragionevole era stata di undici anni, hanno quantificato l’indennizzo in favore del fallito in 14.400 euro, oltre 543,315 euro pari a metà delle spese processuali (essendo stata dichiarata compensata tra le parti la restante metà).
Danno erariale indiretto. Alla luce di quanto deciso dai giudici nisseni, la Procura regionale della Corte dei conti ha notificato l’invito a dedurre nei confronti del curatore fallimentare, ravvisando a suo carico un’ipotesi di danno erariale indiretto, connesso alla condanna al risarcimento del danno per la non ragionevole durata della procedura fallimentare in questione. In assenza di deduzioni difensive, l’organo requirente ha citato in giudizio il curatore chiedendone la condanna al pagamento, in favore del Ministero della Giustizia, di una somma pari all’indennizzo riconosciuto in favore del fallito.
La totale inerzia. Ebbene, i giudici contabili della Sicilia hanno confermato che il giudizio sull'equa riparazione di cui alla Legge 2001 n. 89 (Legge Pinto) costituisce il presupposto, in caso di accoglimento, per un autonomo e differenziato giudizio di responsabilità amministrativo-contabile appartenente alla giurisdizione della Corte dei conti. Il collegio giudicante ha poi ricordato che l’art. 38 L.fall. impone al curatore di adempiere con diligenza i doveri del proprio ufficio; diligenza che, con la riforma della legge fallimentare del 2006, è stata parametrata alla natura dell’incarico. Dall'esame dei fatti è emerso che la curatela “è stata caratterizzata dalla più totale inerzia”, tant’è che tutti i beni mobili acquisiti all’attivo sono stati lasciati deperire. Circostanza, questa, rilevata anche dal curatore successivamente nominato. Nel caso, quindi, l’operato del curatore “non può non ritenersi causalmente ricollegabile all’eccessiva durata della procedura concorsuale in quanto innegabilmente, macroscopicamente, lontana dai parametri di diligenza e perizia richiesti per lo svolgimento dell’attività professionale parametrata alla natura dell’incarico”.
Colpa grave del curatore. La condotta del professionista, pertanto, è stata caratterizzata da “colpa grave” che è contrassegnata, spiegano i giudici, “dall’abnorme allontanamento della condotta tenuta in concreto da quella astrattamente esigibile dal soggetto interessato che, nel caso di un’attività professionale, deve valutarsi con riferimento all’attività esercitata. Qualora si tratti di valutare comportamenti omissivi, al fine di misurare la gravità della colpa, è necessario valutare il grado di consapevolezza, nel soggetto interessato, della condotta che si sarebbe dovuta tenere e che, invece, non si è tenuta. Nel caso di specie, così, a seguito della dichiarazione di fallimento il curatore avrebbe dovuto attivarsi per svolgere le più elementari attività imposte dalla legge al fine di procedere alla liquidazione dell’attivo e pagare, quindi, i creditori”.