17 giugno 2020

L’inerzia degli amministratori (e dei sindaci) conduce al reato di bancarotta semplice

Autore: Giovanni Colombi
La Cassazione (V Sezione Penale) con la sentenza 17626 emessa lo scorso 9 giugno 2020 ci consente di spendere qualche riflessione sulla pericolosità di eventuali comportamenti omissivi tenuti da parte dell’organo amministrativo di società in stato di decozione nonché dell’organo di controllo che si dovesse dimostrare eccessivamente indulgente.

In questa sede non entreremo nel merito della vicenda specifica che ha interessato la Suprema Corte, ma cercheremo di trarre utili indicazioni dai principi enunciati nella sentenza in commento.

Le norme di riferimento – Le norme oggetto di violazione sono gli artt. 217 e 224 L.F. .
Nello specifico ci riferiamo ad uno dei reati fallimentari forse più ricorrenti, ovvero al reato di bancarotta semplice.
Ai sensi dell’art. 217 L.F. “È punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l'imprenditore che, fuori dai casi preveduti nell'articolo precedente: … 3) ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento; 4) ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa; …”.

Sul tema i Giudici della Suprema Corte hanno avuto modo di ricordare come il reato di bancarotta semplice “…deve consistere nel deterioramento, provocato per colpa grave o per mancata richiesta di fallimento, della complessiva situazione economico-finanziaria dell’impresa fallita, non essendo sufficiente ad integrarlo l’aumento di alcune poste passive (Sez. 5 nr. 27634/2019). Mentre nel reato di bancarotta semplice, la mancata tempestiva richiesta di dichiarazione di fallimento da parte dell’amministratore (anche di fatto) della società è punibile se dovuta a colpa grave che può essere desunta, non sulla base del mero ritardo nella richiesta di fallimento, ma, in concreto, da una provata e consapevole omissione. (Sez. 5 nr. 18108/2018, Sez. 5 nr. 38077/2015)”.

Già dall’esame delle parole che precedono individuiamo un primo perimetro che circoscrive le ipotesi di bancarotta semplice ex art. 217 c.1 nr. 4: fondamentale è il peggioramento complessivo della situazione di dissesto (non di singole voci del passivo) e la colpa grave in capo a chi avrebbe dovuto evitarne il peggioramento.

Un ulteriore concetto, sul quale torneremo nel prosieguo, è la non automaticità del reato al verificarsi del ritardo nella richiesta di fallimento.

Il potere informativo - Illuminante è un passaggio della sentenza che la Suprema Corte dedica agli indicatori che fanno desumere la presenza della colpa grave in capo ad amministratori senza delega e sindaci.

Nello specifico, “…ai fini dell’affermazione della responsabilità penale degli amministratori senza delega (come anche dei sindaci) è necessaria la prova che gli stessi siano stati debitamente informati oppure che vi sia stata la presenza di segnali peculiari in relazione all’evento illecito, nonché l’accertamento del grado di anormalità di questi sintomi, giacché solo la prova della conoscenza del fatto illecito o della concreta conoscibilità dello stesso mediante l’attivazione del potere informativo in presenza di segnali inequivocabili comporta l’obbligo giuridico degli amministratori non operativi e dei sindaci di intervenire per impedire il verificarsi dell’evento illecito mentre la mancata attivazione di detti soggetti in presenza di tali circostanze determina l’affermazione della penale responsabilità avendo la loro omissione cagionato, o contribuito a cagionare, l’evento di danno (Sez. 5 nr. 36595/2009).”

Parole pesanti come macigni, come spesso ci capita di commentare! Già in un altro contributo abbiamo avuto modo di analizzare una Sentenza della Suprema Corte (Sez 5 nr. 11308/2020) nella quale i componenti dell’organo di controllo di una società, poi fallita, sono stati condannati proprio per la loro latitanza e la pressoché totale assenza di iniziativa nell’esercitare il potere informativo: quindi connotato comune agli amministratori privi di delega e ai sindaci è proprio quello dell’obbligo di esercitare tutte le loro prerogative al fine di tenere monitorato l’andamento della società, non potendosi certo trincerare dietro una presunta “ignoranza dello stato di fatto” che è addirittura controproducente in ambito difensivo.

La valutazione della colpa grave – Una pregevole dissertazione viene compiuta dalla Supera Corte in merito al confine labile che esiste fra “scelta imprenditoriale” e “colpa grave”.
Un assunto fondamentale è che la scelta imprenditoriale non può essere oggetto di censura penale (Cass. Sez. 5 nr. 43414/2013).

In questa sede, però, viene ricordato che se da un lato il principio sopra enunciato è fuori discussione, esso va coordinato con la finalità dell’art. 217 L.F., quest’ultimo indirizzato a censurare la continuazione dell’esercizio dell’attività d’impresa a fronte di una obiettiva impossibilità di far fronte alle proprie obbligazioni, producendo così il procrastinarsi di uno stato di perdita ed un suo aggravamento, a danno di tutto il ceto creditorio.

La SC ricorda come il requisito della colpa grave di cui all’art. 217 L.F. è comune a tutte le fattispecie in esso previste, quindi anche a quella della ritardata richiesta del fallimento, essendovene i requisiti per farlo. (Sez. 5 nr. 18108/2018, Sez. 5 nr. 38077/2015, Sez. 5 nr. 43414/2013).

Il vero fulcro centrale di tutta la questione è se il mero ritardo nella richiesta del fallimento possa far scattare la presunzione di colpa grave: gli Ermellini, sul punto, concordano nel cassare ogni sorta di automatismo in tal senso!

Sul punto sostengono che “E' vero, infatti, che il ritardo nell'adozione della decisione dell'imprenditore, per certi aspetti drammatica, di richiedere il proprio fallimento può essere ricollegato a una vasta gamma di dinamiche e scelte gestionali, talune delle quali riferibili ad una sfera di opinabilità non punibile.
Tuttavia, sono gli indicatori della fattispecie concreta che devono guidare l'interprete a verificare se ci si trovi dinanzi ad un ritardo consapevole dell'imprenditore che tenti irragionevolmente di proseguire l'attività, pur conoscendone l'irrimediabile esito fallimentare e, dunque, omettendo con colpa grave la corrispondente richiesta di fallimento, ovvero si verta in situazioni di gestione non già spregiudicata ma ancora razionalmente salvifica dell'economia dell'azienda in crisi.
Scartati, dunque, gli atteggiamenti, evidentemente in colpa grave, di assoluta noncuranza per gli effetti del possibile aggravamento del dissesto derivante da un atteggiamento irresponsabilmente omissivo, rimane una vasta area di condotte da verificare in concreto, pur non essendo richiesto dal dato normativo che vengano necessariamente compiuti comportamenti ulteriori che concorrano con la mancata richiesta di fallimento ed il conseguente aggravamento del dissesto, ma potendosi rilevare la colpa grave anche solo per effetto del mero proseguimento dell'attività di impresa (Sez. 5, n. 13318 del 14.2.2013, Viale, Rv. 254986; Sez. 5, n. 28609 del 21.4.2017, Andriollo, Rv. 270874; Sez. 5, n. 18108 del 2018, cit.).
L'eterogeneità di queste situazioni, come si è efficacemente affermato già in alcune delle pronunce citate, rende insostenibile la tesi di una loro automatica sussunzione nella più intensa dimensione della colpa, sicché deve ribadirsi il principio secondo cui nel reato di bancarotta semplice previsto dall'art. 217, comma primo, n. 4, L. fall., la mancata tempestiva richiesta di dichiarazione di fallimento da parte dell'amministratore della società è punibile se dovuta a colpa grave, desumibile non già automaticamente dal mero ritardo nella richiesta di fallimento, ma, in concreto, da una provata e consapevole omissione.
Più precisamente, al fine di ritenere la sussistenza della colpa grave nella fattispecie di bancarotta semplice per omessa richiesta di fallimento, deve essere data compiuta prova degli elementi dai quali si desume la piena conoscenza da parte dell'imputato dello stato di decozione in cui versava l'impresa e la rappresentazione preventiva da parte sua che la scelta di ritardare la presentazione dell'istanza di dichiarazione di fallimento poteva determinare un aggravamento del dissesto.”

Dalle parole che precedono possiamo quindi ricavare alcuni principi fondamentali:
  1. il mero ritardo nella richiesta di fallimento non determina l’insorgere del reato fallimentare,
  2. occorre una concreta analisi della fattispecie specifica per discernere fra colposa noncuranza/inerzia dell’imprenditore (organo amministrativo) e scelta imprenditoriale (ancorché opinabile) sorretta da ipotesi razionali e salvifiche dell’impresa, ed infine
  3. piena conoscenza preventiva da parte dell’imprenditore (organo amministrativo) che la prosecuzione sia foriera di ulteriori perdite e di un aggravamento del dissesto.

Indubbiamente la sentenza in commento offre agli amministratori, ai sindaci ed ai professionisti che assistono le imprese nel momento della difficoltà una pluralità di argomenti sui quali riflettere, specie in questo momento storico del tutto particolare.
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