Premessa - Il lavoratore che sia rappresentante sindacale se, per effetto di un comportamento scorretto e/o ostruzionistico del datore di lavoro, lamenti di avere subito un danno non patrimoniale, deve allegare e provare la concreta lesione patita in termini di violazione dell'integrità psico-fisica ovvero di nocumento delle generali condizioni di vita personali e sociali, in quanto il generico riferimento alla frustrazione personale e al discredito nell'ambiente di lavoro conseguenti alla suddetta condotta - quale è quello effettuato nella specie - in realtà si risolve nell'affermazione di un danno in re ipsa, situazione che non è mai configurabile neppure ove si lamenti la lesione di diritti inviolabili. È questo in sostanza il principio che deriva dalla sentenza n. 7471/2012 della Suprema Corte.
La vicenda - Il caso esaminato riguarda un rappresentante sindacale aziendale che era stato sanzionato illegittimamente per aver offeso l'onore del datore di lavoro denunciando, nei limiti della verità oggettiva, irregolarità negli appalti. Ritenendo di aver subito un danno non patrimoniale aveva domandato il risarcimento, documentando di aver subito discredito nell'ambiente di lavoro e sociale a causa dell'irrogazione della sanzione disciplinare poi annullata dal giudice.
La sentenza – La Suprema Corte ha rigettato entrambi i ricorsi. Per quanto attiene alla ritenuta illegittimità delle sanzioni disciplinari, la Corte ha ricordato che in tema di esercizio del diritto di critica da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro, è necessario che il prestatore non travalichi, con dolo o colpa grave, la soglia del rispetto della verità oggettiva con modalità e termini tali da ledere gratuitamente il decoro del datore di lavoro o del proprio superiore gerarchico e determinare un pregiudizio per l'impresa. Il relativo accertamento costituisce giudizio di fatto, incensurabile in sede di legittimità se correttamente e congruamente motivato.Infatti,la sentenza si basa sul principio secondo il quale il rappresentante sindacale, che esprime il diritto di critica, anche aspra, nei confronti del datore di lavoro, incontra i limiti della correttezza formale imposti dall'esigenza, anch'essa costituzionalmente garantita (art. 2 Costituzione.), di tutela della persona umana. Pertanto, qualora tali limiti siano superati con l'attribuzione all'impresa datoriale o a suoi dirigenti di qualità apertamente disonorevoli e di riferimenti denigratori non provati, il comportamento del lavoratore può essere legittimamente sanzionato in via disciplinare.Al riguardo, la sentenza in commento precisa espressamente che il danno non patrimoniale, anche nel caso di lesione di diritti inviolabili, quale il diritto alla libera manifestazione del pensiero, non può mai ritenersi "in re ipsa", ma va debitamente allegato e provato da chi lo invoca, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici.In definitiva, i giudici chiariscono che anche il lavoratore che sia rappresentante sindacale se, per effetto di un comportamento scorretto e/o ostruzionistico del datore di lavoro, lamenti di avere subito un danno non patrimoniale, deve allegare e provare la concreta lesione patita in termini di violazione dell'integrità psico-fisica ovvero di nocumento delle generali condizioni di vita personali e sociali, in quanto il generico riferimento alla frustrazione personale e al discredito nell'ambiente di lavoro conseguenti alla suddetta condotta - quale è quello effettuato nella specie - in realtà si risolve nell'affermazione di un danno in re ipsa, situazione che non è mai configurabile neppure ove si lamenti la lesione di diritti inviolabili.
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