Premessa – Il dipendente di banca che effettua operazioni non consentite di trading azionario “allo scoperto” e partecipa ad attività commerciali dubbie, può essere oggetto di licenziamento in tronco. Infatti nel licenziamento per giusta causa rileva ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro. A stabilirlo è la Cassazione, sezione lavoro, con la sentenza 9/4/2014, n. 8379.
La vicenda - Il caso riguarda un dipendente di un grande gruppo bancario italiano, con qualifica impiegatizia e mansioni di addetto alla cassa presso varie filiali e agenzie. Il dipendente, in particolare, adiva il Tribunale per l'immediata reintegrazione nel posto di lavoro, perduto per licenziamento "in tronco" intimatogli dalla banca con raccomandata ai sensi degli artt. 7 Legge n. 300/1970 e 2119 c.c., sulla base di contestazione di addebiti essenzialmente riconducibili a operazioni non consentite di trading azionario "allo scoperto" e a partecipazione ad attività commerciali incompatibili. Il tribunale però, ritenuta l'infondatezza, respingeva il ricorso con sentenza confermata dalla Corte di Appello. Ravvisata l'immediatezza tanto della contestazione rispetto alla conoscenza dei fatti, quanto dell'intimazione di licenziamento rispetto alla prima, la Corte riteneva legittimo il licenziamento impugnato per rottura del vincolo di fiducia tra le parti. Ciò in quanto il dipendente ha operato trading finanziario (in linea generale consentito, ma) senza sufficiente provvista (non elidendo la successiva ricostituzione la gravità del comportamento) e prelevato e trasportato contante poi sottratto, senza necessità e facendosi accompagnare da terzo estraneo, con la commistione pure di incombenze personali e potenziale esposizione a responsabilità ex art. 2049 c.c. della banca datrice, non inadempiente agli obblighi prescritti dall'art. 2087 c.c. Contro la sentenza proponeva ricorso per cassazione il dipendente, formulando numerosi motivi.
La sentenza – I giudici della Suprema Corte hanno confermato la sentenza d’Appello soffermandosi, peraltro, sui poteri valutativi del giudice in ordine alla congruità della sanzione del licenziamento. Sul punto, la Corte ha precisato che in caso di licenziamento per giusta causa, ai fini della proporzionalità fra fatto addebitato e recesso, rileva ogni comportamento che, per la sua gravità, sia suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro e di far ritenere che la continuazione del rapporto sia di pregiudizio agli scopi aziendali. Secondo il principio affermato dalla Cassazione, inoltre, spetta al giudice di merito apprezzare la congruità della sanzione espulsiva per valutazione non astratta del fatto addebitato, ma di ogni aspetto concreto della vicenda processuale che, in esito a scrutinio unitario e sistematico, risulti sintomatico della sua gravità rispetto a un'utile prosecuzione del rapporto di lavoro, in relazione al grado di affidamento richiesto dalle mansioni svolte dal dipendente, alle precedenti modalità di attuazione del rapporto, alla sua particolare natura e tipologia.
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