I due episodi più recenti risalgono a pochi giorni fa: il primo è quello di un gruppetto di tre ragazzi (due dei quali minorenni) che ha aggredito e ucciso a coltellate un sedicenne di origini pakistane nel parchetto Novi Sad di Modena; l’altro riguarda la baby-gang che, a Torre del Greco, nel napoletano, ha circondato e picchiato con un tirapugni un bambino di soli 11 anni.
Sono solo le ultime, in ordine di tempo, di una serie di aggressioni di cui sono sempre più di frequente protagonisti giovani e giovanissimi e che attestano, inequivocabilmente, il dilagare di una violenza che ormai non può più semplicemente ricondursi al fenomeno del bullismo.
Ancor più grave è, poi, che questi giovani vadano disinvoltamente in giro armati di coltelli, spranghe e tirapugni (quando non di pistole) e che l’età del loro coinvolgimento tenda progressivamente ad abbassarsi. Fino a qualche tempo fa, infatti, si trattava perlopiù di ragazzi minorenni benché ultrasedicenni; ora, invece, è ricorrente – come dimostra l’aggressione di Torre del Greco – che a commettere crimini e azioni spietate siano ragazzi sotto i 14 anni, come tali neanche penalmente perseguibili.
Probabilmente, anzi, è proprio questo limite di imputabilità a giocare un ruolo decisivo nell’indurre bande di adolescenti ad agire pressoché indisturbate, stante la vigenza di una presunzione di diritto che dà per scontata l’inconsapevolezza delle loro azioni, laddove, viceversa, i fatti dimostrano che essi sono perfettamente in grado di intendere e volere.
Merita tuttavia di essere analizzata per prima la ragione per cui a 11, 14 o 16 anni si esca di casa armati. Generalmente i minori interessati sono ragazzi che fanno parte di una “banda”, di una “gang” o di qualunque altra unione di individui che si connoti come organizzazione deviante. E’ chiaro, infatti, che sia il gruppo – o, meglio, ‘il branco’ – l’elemento che, oltre a fare da collante, rappresenta lo sprone e l’incentivo a porre in essere gesti ed azioni che difficilmente compirebbe il singolo.
L’appartenenza ad un tale contesto a sua volta fa dedurre che il possesso di un’arma – anche quelle che si definiscono ‘improprie’, come spranghe, catene, tubi - non sia finalizzato alla difesa, ma senz’altro all’offesa. Esiste, insomma, all’interno del branco una forma di aggressività intenzionale e deliberatamente indirizzata a fare del male o a distruggere, nonché un “uso facile” delle armi.
Ma da dove arriva tutta questa aggressività?
La causa non può essere ancora una volta il Covid, come perlopiù si è portati a concludere, di questi tempi, di fronte ad ogni guasto sociale di cui per convenienza o sbrigatività si preferisce non indagare altre ragioni. Indubbiamente l’isolamento e la solitudine cui ha costretto il periodo pandemico hanno avuto un ruolo, ma piuttosto nel senso di amplificare disagi e devianze già latenti.
I motivi più concreti vanno ricercati altrove: nella fame di media e social, anzitutto, che sempre più induce, da un lato, ad emulare modelli anche negativi e, dall’altro, a mettere in vetrina ogni azione alla ricerca di plauso. Una dipendenza altrettanto deviante, insomma, che agisce profondamente sugli individui più fragili, innescando la reazione paradossale di indurre a gesti di spavalderia e dimostrazioni di coraggio estremi.
Ma c’è anche un diverso e più drammatico fattore: la mancanza di empatia. Le nuove generazioni sono asciutte, sterili, pressoché anaffettive e ciò determina quella sostanziale incapacità di mettersi nei panni dell’altro. Ne consegue che disagio, dolore, sofferenza altrui non vengono affatto percepiti e, pertanto, aggredire e persino uccidere i propri simili non genere alcuna valutazione di opportunità né provoca alcun pentimento o rimorso. L’azione di gruppo, perdipiù, porta ad alterare la percezione degli accadimenti: da un lato, agisce un meccanismo di deresponsabilizzazione favorito dalla condivisione della violenza, che è come se si spezzettasse e si distribuisse tra i vari componenti del branco, con ciò diluendo la colpa. In tal modo l’agito finisce quasi per apparire come un gioco, in cui si combinano sfida, prodezza ed adrenalina; dall’altro, quella stessa unità d’azione porta a rendere accettabile il danno o la sofferenza impressi alla vittima, innescando una sorta di disimpegno morale per cui l’evento provocato e le sue conseguenze non vengono intesi nella loro reale portata, ma distorti al punto da sembrare giustificati se non addirittura dovuti. In sostanza è come se prevalesse il convincimento che la vittima meriti di subire l’aggressione.
Un ultimo e non trascurabile fattore è, poi, il contesto familiare di provenienza: spesso dietro quei ragazzi ci sono famiglie violente a loro volta oppure provate da disagi o privazioni che ne comportano una qualche devianza. Ed inevitabilmente tutto ciò condiziona la crescita dei figli con inevitabili riflessi sulla loro condotta.
Allora qual è il rimedio?
Sicuramente la creazione di una rete tra scuole, istituzioni e famiglie attraverso cui veicolare principi di rispetto e sana educazione. Ma, prima ancora, occorre un’azione di ‘rinforzo’ diretta al carattere ed alla personalità di questi ragazzi, affinché possano sganciarsi da idoli e falsi modelli e fortificarsi autenticamente ed autonomamente attraverso strumenti e modi di esprimersi diversi dalla rabbia e dalla violenza.
Queste ultime, difatti non sono altro che passioni – cioè emozioni violente e persistenti che contrastano con la razionalità e l’obiettività – che vanno quindi controllate e dominate per impedire che siano esse a controllare e dominare.