Non è propriamente quello dipinto dalla nota fiction “Mare Fuori” il ritratto autentico delle carceri minorili italiane. C’è lì un racconto – crudo, si, ma perlopiù romantico, quasi – dal quale in ogni caso la prigione emerge quasi come una sorta di palestra di vita, da cui, tra sfide, conflitti e prove ardimentose, si esce “cresciuti”, trasformati un donne e uomini “veri”. Soprattutto, emerge l’idea che essa sia un luogo di socialità – certo particolare ed estrema – in cui più che il lavoro di quelle strutture che, nella realtà, sarebbero deputate al recupero ed alla rieducazione dei giovani detenuti, a svolgere tale compito sia la relazione tra ragazzi e ragazze (inverosimilmente promiscua), al più coadiuvata dalla figura, a tratti fraterna o paterna, del Comandante quale adulto di riferimento.
Il tutto impiantato, peraltro, sulla premessa scontata che il carcere sia la conseguenza immediata e diretta delle azioni più o meno gravi compiute dai minorenni protagonisti, quando invece esso – a rigor di norma - dovrebbe essere l’ultima ratio, una volta esperiti altri rimedi di natura non detentiva, come ad esempio la messa in prova, ossia la sospensione del processo e l’affidamento a un servizio sociale.
A tal ultimo riguardo va tuttavia notato come anche nella realtà si sia verificata, in tempi recentissimi, un’alterazione che va in evidente contraddizione proprio con la necessità da ultimo richiamata. Il settimo report sulla giustizia minorile e gli Istituti penali per minorenni, pubblicato qualche giorno fa dall’Associazione Antigone e intitolato “Prospettive minori”, delinea, infatti, con non poca preoccupazione, la disgregazione di quei principi ispiratori che, del sistema di giustizia minorile nel nostro paese, avevano fatto, finora, un modello a livello europeo. Si delineano, appunto perciò, prospettive minori – come si legge nell’incipit del rapporto - tanto per gli operatori, alcuni dei quali fanno un lavoro straordinario fuori e dentro le carceri e si ritrovano strumenti sempre più spuntati e inefficaci; quanto, e soprattutto, per i ragazzi e le ragazze, che si ritrovano attorno più sbarre - fisiche e metaforiche - e meno speranze riguardo al loro futuro.
Dall’inizio del 2024 ad oggi – rivela il report - sono circa 500 i detenuti nelle carceri minorili italiane, il numero più alto registrato negli ultimi dieci anni.
E si tratta di numeri in crescente aumento: difatti, se nel 2021 gli ingressi negli Istituti Penitenziari Minorili (IPM) sono stati 835, sono diventati 1.143 nel 2023; parimenti, il numero dei ragazzi sottoposti a misura cautelare è salito a 340 nel gennaio 2024 a fronte dei 243 di un anno prima, mentre gli ingressi in IPM per violazione della legge sugli stupefacenti è aumentato in un anno del 37,4%.
Ma, attenzione: non è aumentata la criminalità minorile né sono aumentati i reati (che, anzi, secondo i dati forniti dall’Istat e dal Ministero dell’Interno, relativi ai minorenni arrestati e/o indagati nel periodo 2010–2022, mostrano un picco nel 2015 cui segue un costante decremento), ma, viceversa, con il Decreto Caivano dello scorso settembre 2023, sono state introdotte nuove “misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile”, che si sono tradotte in un proliferare di misure cautelari per minori (DASPO urbano, foglio di via, misure di contrasto alle ‘baby gang’, ammonimento), misure sul processo penale a carico di imputati minorenni e istituti penali per minorenni. In particolare è stata estesa l’applicazione della custodia cautelare in carcere, che ha compreso anche fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti.
Secondo Antigone, il Decreto Caivano ha avuto un “effetto distruttivo” che sta minando il sistema della giustizia minorile, “sia in termini di aumento del ricorso alla detenzione che di qualità dei percorsi di recupero per il giovane autore di delitto.” Difatti, sempre secondo l’associazione, “l’estensione delle possibilità di applicazione dell’accompagnamento a seguito di flagranza e della custodia cautelare in carcere” - come previsto dal Decreto – “stravolge l’impianto del codice di procedura penale minorile del 1988”, che è fondato sull’interesse superiore del minore, criterio che deve avere una considerazione preminente in ogni legge, provvedimento, iniziativa pubblica o privata e in ogni situazione problematica. E la reclusione dei minorenni deve essere, perciò, sempre l’extrema ratio, e quando viene applicata la misura della custodia in carcere, deve essere accompagnata da misure rieducative.
Invece, l’applicazione del Decreto “sta già determinando un’impennata degli ingressi negli IPM. L’aumento delle pene e la possibilità di disporre la custodia cautelare, in particolare per i fatti di lieve entità legati alle sostanze stupefacenti - comma 5 di quell’art. 73 che costituisce in assoluto l’attore principale del nostro sistema penale - continuerà a determinare un grande afflusso di giovani in carcere anche in fase cautelare.”
Da qui, dunque, la critica: “Invece di intervenire sui servizi per la tossicodipendenza e sull’educazione nelle scuole” – scrive Antigone – “si va a inasprire una figura di reato che porterà a maggiori arresti di minori che consumano sostanze psicotrope anche leggere e sono spesso coinvolti solo occasionalmente con lo spaccio”.
Ma non è tutto. Il report evidenzia anche che l’introduzione della possibilità da parte del direttore dell'IPM di promuovere il trasferimento del giovani a un carcere per adulti, sempre prevista dal Decreto, ”cede alla facile tentazione di fornire uno strumento di pronta risoluzione del problema all’istituto che si trovi anche momentaneamente ad affrontare un giovane detenuto di difficile gestione”; ma, così facendo, “la risoluzione viene tuttavia fondata sulla neutralizzazione del problema piuttosto che sulla sua autentica presa in carico, a scapito del percorso del giovane che verrà seriamente compromesso con il passaggio al modello carcerario degli adulti”. Finisce dunque che i ragazzi “sono trattati come pacchi postali”. E si tratta dei ragazzi detenuti più difficili da trattare, spesso minori stranieri non accompagnati con disturbi comportamentali, problemi di dipendenze da sostanze, psicofarmaci e/alcool, solitudine, violenze subite durante i percorsi migratori; ragazzi con vissuti estremamente faticosi alle spalle, privi di riferimenti affettivi e poco consapevoli di quanto va loro accadendo, che possono esprimere il loro malessere attraverso comportamenti disturbanti. “Capita allora che il ragazzo entri in carcere con l’accusa di un singolo reato e ne collezioni molti altri (oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, danneggiamento, rissa, rivolta), in un circolo vizioso che se non verrà interrotto dall’ascolto e dal sostegno porterà solamente a incancrenire le situazioni e far perdere ogni speranza a questi giovani.”
Il tutto in un ben noto contesto di sovraffollamento carcerario e di carenza di personale, che, dall’inizio dell’anno, sono stati causa già di circa 20 suicidi.
“Punire per educare” è una politica perdente, chiosa il report; “è illusorio, nonché socialmente dannoso, inseguire gli obiettivi ricompresi in questo slogan oggi tanto di moda nelle carceri e finanche nelle scuole. Uno slogan che è diventato politica attiva. La giustizia penale minorile non meritava le involuzioni normative presenti nel cosiddetto Decreto Legge Caivano che ci riporta qualche decennio indietro nella storia giuridica del nostro Paese.”