Il processo in corso in questi giorni alla Corte d’Assise di Milano contro Alessia Pifferi – la donna che nel luglio del 2022 abbandonò da sola in casa per una settimana la figlia Diana di un anno e mezzo, facendola morire di stenti – non solo si sta dimostrando insolitamente faticoso ma sta assumendo contorni a tratti davvero surreali.
Non è certo infrequente che, nel corso di un giudizio, capiti che se ne inneschi un altro parallelo sulla scorta di vicende ad esso collegate; ma è senz’altro più raro che il nuovo processo coinvolga addirittura l’avvocato della difesa nel processo principale e altre figure professionali che hanno svolto il compito di valutare il quadro psicologico dell’imputato.
Ed è invece proprio ciò che sta accadendo, con la macroscopica conseguenza che l’asse dell’attenzione – mediatica certamente, ma anche quella più specificamente legata al contesto dell’avvocatura e della magistratura – si sta spostando verso la vicenda aggiunta, e non senza contrasti.
La “trama” è facilmente sintetizzabile: una volta disposta la custodia cautelare in carcere per la Pifferi (accusata di omicidio volontario aggravato dalla premeditazione, dall’aver agito in ambito famigliare e per motivi futili e abietti) la difesa ha presentato al Gip la richiesta di una perizia neuroscientifica volta ad accertare se l’imputata fosse capace di intendere e di volere e quindi processabile. Respinta per ben due volte, la richiesta è stata infine accolta sulla base di una consulenza di parte - voluta dal nuovo difensore della Pifferi (che ne ha cambiati diversi nel corso di questi quasi due anni), l’avvocato Alessia Pontenani –, nella quale si riportavano tra l’altro le osservazioni condotte da due psicologhe del carcere di San Vittore, che, dopo aver somministrato all’imputata il cosiddetto test di WAIS (Wechsler Adult Intelligence Scale), finalizzato a calcolare il quoziente intellettivo, ne avevano riscontrato uno molto basso (40 punti), tale per cui la donna avrebbe una «scarsa comprensione delle relazioni di causa ed effetto e delle conseguenze delle proprie azioni». In pratica non sarebbe in grado di accorgersi della sofferenza né di collocare nel tempo le conseguenze di ciò che fa.
Tuttavia, nel corso di una udienza dello scorso ottobre, il pubblico ministero Francesco De Tommasi si è opposto alla richiesta della perizia, accusando le due psicologhe di San Vittore di aver manipolato l’imputata. La perizia è stata comunque concessa e affidata dalla Corte d’Assise ad uno psichiatra forense, il quale ha accertato che il complicato quadro psichiatrico dell’imputata «non è tale da far scemare in maniera significativa la capacità di intendere e volere né da minarne la capacità di stare consapevolmente in giudizio». Inoltre, commentando il lavoro fatto dalle due psicologhe del carcere, il perito ha dichiarato che, in considerazione del quadro clinico della donna – ritenuto non allarmante - «l’attivazione di due psicologhe con colloqui frequenti era non appropriata.» Come dire che le due terapiste hanno lavorato troppo!
Alla luce di tali esiti, il PM ha quindi deciso di indagare le due professioniste e anche il difensore della Pifferi, con l’accusa di falso ideologico. Secondo De Tommasi l’assistenza psicologica prestata in carcere all’imputata era ingiustificata e sarebbe stata «una vera e propria attività di consulenza difensiva volta esclusivamente a creare, mediante false attestazioni circa lo stato mentale della detenuta e l’andamento e i contenuti dei colloqui, le condizioni per tentare di giustificare la somministrazione del test psicodiagnostico».
E qui si apre un ulteriore capitolo di questa anomala vicenda: l’indagine parallela aperta dal PM nei confronti delle psicologhe e del legale è stata taciuta all’altro PM - Rosaria Stagnaro - e alle due procuratrici aggiunte, che ne hanno appreso l’esistenza solo a gennaio, dalla stampa. Di conseguenza, la Stagnaro ha chiesto la rinuncia al caso - cosa anch’essa abbastanza inusuale per un PM – e l’ha ottenuta, avendo il Procuratore riconosciuto un “contrasto insanabile” tra i due pubblici ministeri.
Lo scorso 4 marzo era fissata una nuova udienza, ma giacché l’avvocato della difesa aveva avuto copia della perizia dell’esperto forense fuori dai termini di legge e senza dunque poterla esaminare, ha chiesto un rinvio al presidente della Corte che, a sua volta, ha chiesto il parere del PM. Questi ha immediatamente replicato che la richiesta di rinvio avrebbe avuto mera natura “dilatoria” ed ha proseguito con una sorta di requisitoria anticipata dell’altro processo parallelo – non ancora instaurato! – contro il difensore e le psicologhe, annunciando il possesso di prove ad esso relative.
Il Presidente ha tuttavia accolto la richiesta di rinvio.
Insomma, è una vicenda abbastanza contorta e spinosa – kafkiana si potrebbe dire, visto il tema – che ha procurato le critiche della camera penale di Milano (l’associazione degli avvocati penalisti che discute con la magistratura e con altre istituzioni dei problemi della giustizia), secondo cui l’indagine parallela vìola diverse norme e non solo compromette l’assistenza alle persone detenute, ma è un attacco diretto e illegittimo al ruolo della difesa. Essa ha quindi approvato una delibera per chiedere al procuratore di riassegnare ad altri pubblici ministeri sia il processo in corso sia l’indagine parallela, ed ha anche proclamato una giornata di astensione dall’attività giudiziaria a tutela del diritto di difesa, con l’intento di aprire un confronto con la magistratura milanese, nella convinzione che una “sensibilizzazione su problematiche comuni della giustizia e del diritto alla difesa” possano portare a prevenire il ripetersi di fenomeni ritenuti “molto gravi e lesivi dei principi costituzionali e convenzionali del giusto processo”.
La camera penale ha pertanto ribadito che, se durante la fase delle indagini, lo spazio di intervento garantito alla difesa è fisiologicamente ridotto, una volta a processo, al cittadino, chiamato a rispondere di un reato “deve essere assicurata la massima esplicazione delle prerogative difensive e tale diritto non può subire improprie ingerenze, soprattutto nel momento dell’assunzione della prova”. E nel caso di specie di alterazioni ce ne sono state non poche, evidentemente, a cominciare dall’indagine mossa nei confronti del difensore dell’imputata e del personale sanitario del carcere - che rischia di avere valenza intimidatoria e di minare, di conseguenza, il sereno e corretto andamento del processo - nonché dall’ennesima “fuga di notizie” che ha consentito ai giornali di essere informati di un processo parallelo prima ancora degli altri magistrati dell’accusa.
Un gran pasticcio, dunque, dietro cui passa paradossalmente in subordine la vicenda, tanto giudiziaria quanto umana, di una madre colpevole di infanticidio e sicuramente psicologicamente instabile, cui tuttavia non va negato alcuno strumento di difesa.