Il pronome di cortesia in uso ai tempi in cui andavo ancora a scuola era decisamente il “Voi”. Era la formula che si utilizzava per rimarcare il grado di superiorità del proprio interlocutore quando si trattava di persone adulte o anziane, di professionisti (il medico, il farmacista e l’avvocato in primis) e – neanche a dirlo – di insegnanti.
Il “Lei” non era affatto contemplato, come perlopiù è tuttora al Sud, dove soltanto la seconda persona plurale viene considerata attributo di rispetto.
Conservo impresso nella mente il ricordo di una mia compagna delle scuole elementari – la mia amica del cuore di quei giorni candidi e spensierati – che, fedele ad una cultura profondamente patriarcale, com’era quella delle famiglie numerose del tempo, si rivolgeva a suo padre con un solenne e riverente “Vussuria”, riservando soltanto alla madre il più complice e intimo “tu”.
Nella mia fanciullesca percezione d’allora non comprendevo ovviamente che si trattasse di una formula rispondente all’ancora viva concezione del capofamiglia inteso come autorità, “capo”, appunto. La consideravo piuttosto la barriera divisoria che tracciava una distanza netta ed invalicabile tra entità destinate a rimanere sempre ad altezze diverse, nel formalismo che li voleva quasi scissi in sudditi e padroni, senza mai poter rivelare il dettaglio di un’affettività e di un’intimità che agli occhi degli altri sarebbero apparse – esse sì – irrispettose e inadeguate a ruoli altrimenti definiti.
“Il Voi è fascista” mi aveva detto una volta mio nonno; e di tale affermazione avevo capito il senso solo più tardi, quando avevo appreso come fosse stato il Duce in persona, durante la dittatura fascista, a proibire l’uso del “Lei” a favore del “Voi”, giacché quest’ultimo aveva avuto origine durante l’Impero romano, il cui modello gli era d’ispirazione. Era stato difatti sotto l’impero di Diocleziano che l’uso esclusivo ed indifferenziato del “Tu” era stato affiancato da quello del “Voi” allorché era stata scelta una forma di governo tetrarchica, con due Augusti e due Cesari; il che imponeva che per rivolgersi ai più potenti di un Impero dovesse utilizzarsi il pronome plurale, in quella forma conosciuta come pluralis maiestatis.
Il “Lei”, tuttavia (che in Italia aveva preso piede nel 1500 sotto la dominazione degli spagnoli, che impiegavano come forma di cortesia un pronome che così era stato tradotto) aveva resistito perché ormai ampiamente diffuso, continuando dunque a restare affiancato al “Voi”.
È però ampiamente evidente come oggi l’uso di entrambi quei pronomi di cortesia stia scomparendo, dacché è la stessa cortesia in sé e per sé ad essere diventata un valore in via d’estinzione.
Prova ne sia che in contesti sempre più vari e differenziati l’uso disinvolto e sfacciato del “Tu” sta prevalendo, a prescindere dalle situazioni, dai ruoli e dall’età delle persone.
E così il giovane cameriere al tavolo del ristorante si rivolge amabilmente con un: “allora, caro, che ti porto?” anche ad una anziano signore che potrebbe essere suo nonno; lo stesso fa la commessa d’un negozio rivolgendosi alla donna che potrebbe essere sua madre mentre sta curiosando tra gli stands con un: “se vuoi misurare qualcosa dimmelo che te la prendo”; e, ancora, gli alunni in classe (ne ho testimonianza diretta!) si rivolgono con quella stessa confidenza ai loro insegnanti: “Ao’, che stai affà? e mò’ perché m’hai messo a nota?”
Insomma, il “Voi” è ormai scomparso e il “Lei” sta diventando sempre più raro.
Probabilmente è vero che la causa di tutto ciò è da ricercarsi in quel progressivo imbarbarimento della lingua italiana – scritta e parlata – che tra neologismi, anglofonie, questioni di genere sta riducendo velocemente la propria ricchezza; allo stesso modo ne rappresenta allora un inesorabile segno di declino il ricorso spudorato ad una “familiarità” che molto spesso non si confà al tipo di relazione che corre tra gli interlocutori.
Altrettanto vero è che la velocità del vivere moderno rende tutto e tutti meno attenti ai formalismi e alle questioni di stile, badandosi più spesso all’immediatezza della comunicazione che non alle sue modalità espressive.
Ma è anche drammaticamente vero che c’è una componente non trascurabile di maleducazione che affligge soprattutto i giovani ed in virtù della quale le dimensioni del rispetto e del pudore sono ormai state infrante.
Partendo allora da qui, da questa deficienza educativa e dalla mancanza di modelli corretti e positivi, che si possono comprendere le cause di gesti come quello, recente, che ha visto protagonista un insegnante di diritto di una scuola di Bari, malmenato per aver messo una nota ad un’alunna che disturbava la lezione.
Ecco, più che di “atteggiamenti di tipo delinquenziale e mafioso" imputabili agli alunni di una scuola “dove vige l’anarchia” – secondo le dichiarazioni rilasciate dallo stesso meschino professore all’indomani dell’aggressione – il problema di fondo è forse il totale digiuno di quei principi che solo una corretta educazione, improntata al rispetto ed al riconoscimento del valore e del ruolo altrui, è in grado di alimentare.
E se poi i modelli di riferimento sono quelli di un padre che arma una spedizione punitiva per mondare il presunto oltraggio commesso contro la figlia e di una madre che, riferendosi all’insegnante, dichiara senza mezzi termini “Se lo avessi preso io, gli avrei staccato la testa per giocare a pallone nel cortile”, resta ben poco da sperare che le nuove generazioni crescano con un’adeguata capacità di discernimento tra ciò che è bene e ciò che non lo è. Rispetto compreso.