Secondo un’antica formula latina, una condizione indispensabile richiesta al magistrato nello svolgimento della sua funzione è che egli agisca «sine spe et sine metu», cioè senza speranza di ricompensa o vantaggi e senza timore di sanzioni o svantaggi. È una regola di condotta per ogni giudice ma e, al tempo stesso, una precondizione di fiducia per i cittadini che debbano subire un giudizio o ricevere tutela giurisdizionale.
Su questo principio si è inevitabilmente focalizzata la riflessione all’indomani del grande caso mediatico accesosi attorno alla decisione del giudice Apostolico di Catania, nei cui confronti, più che il giudizio di sostanza sui contenuti e le motivazioni della pronuncia con cui ha disposto il non trattenimento di un immigrato tunisino, è invece prevalso l’attacco alla sua terzietà, dopo che un video risalente a cinque anni prima e circolato grazie a non si sa bene ancora quali fonti, l’ha mostrata manifestare contro il blocco in porto della nave Diciotti carica di immigrati.
A parte l’inopportuna incursione in una sfera che esula dalla funzione rivestita dal “giudice” Apostolico per collocarsi nella sfera privata della “cittadina” Apostolico - in quanto tale destinataria di tutti i diritti e le libertà costituzionalmente garantiti, compresi quelli di espressione e di parola – è assurdo che il tentativo di delegittimarne l’operato si compia spostando l’asse dell’attenzione del profilo professionale a quello personale, in nome d’un altro antico adagio, spesso pure brandito in questi giorni, secondo cui «il magistrato, come la moglie di Cesare, dovrebbe non solo essere ma anche apparire imparziale».
Ma che un tale criterio non rappresenti una regola assoluta e vada invece opportunamente contestualizzato è del resto un punto fermo che è stato messo nero su bianco dal D. Lgs. n. 109 del 2006 che, nel disciplinare gli illeciti disciplinari dei magistrati, le relative sanzioni e la procedura per la loro applicabilità, ha vietato al magistrato la partecipazione a pubbliche manifestazioni solo se connesse a procedimenti in corso. Il che – riportato all’attualità - equivale a dire che non è la mera partecipazione ad una manifestazione a rendere il giudice sospetto di parzialità (tanto più che, nel caso di specie, la manifestazione cui presenziava la Apostolico era stata indetta per chiedere il rispetto dei diritti civili fondamentali, coperti dalla Costituzione), ma la manifestazione di assenso o dissenso in un procedimento in corso, come ha lucidamente sottolineato l’ex presidente della Consulta, Giovanni Maria Flik, in una intervista di questi giorni rilasciata a La Stampa.
Ciò premesso (e non è certo una premessa da poco), la questione maggiore che subito dopo si pone è se tutto questo clamore non abbia sortito come effetto immediato e diretto quello di minare proprio quella pretesa di agire “sine metu” richiesta al magistrato.
Se, infatti, il timore che si configura di fronte ad un giudizio da dichiarare è quello di dover poi soggiacere ad una gogna mediatica - innescata peraltro da organi di un potere dello Stato diverso da quello giurisdizionale e, dunque, con contorni più squisitamente politici - c’è da credere a ragion veduta che il rischio conseguenziale possa essere quello di un condizionamento futuro dell’attività non solo del magistrato che, nello specifico, è messo in discussione, ma anche di tutti i magistrati in generale.
Un giudice dovrebbe unicamente interrogarsi su chi, nel caso che sta decidendo, abbia ragione in base alle leggi, adeguatamente ponderate – peraltro - anche alla luce di supremi principi costituzionali o sovranazionali. Se, viceversa, su tale interrogativo prevale quello di cosa possa accadergli se prende una decisione verso la quale si sta orientando - sempre, ovviamente, seguendo la legge (una legge gerarchicamente superiore, come nella specie) - perché potrebbe trovarsi la vita setacciata addirittura da esponenti del governo, allora sì che la sua indipendenza rischia di essere davvero gravemente intaccata! Allora si che si auto-delegittima! Allora si che la giustizia cessa di essere tale per diventare conformismo!
E tuttavia, mentre ancora le acque si agitano, e c’è attesa per un eventuale provvedimento impugnativo della decisione del giudice Apostolico e, ancora, di un intervento sul suo caso da parte del CSM, ecco che qualcosa sembra fugare i timori sin qui espressi.
Un nuovo colpo contro la legittimità del decreto Cutro arriva dallo stesso Tribunale di Catania, con un'altra pronuncia di un altro giudice. Che stavolta si chiama Rosario Maria Annibale Cupri e, si, “sine metu”, ha smontato, in sette pagine di motivazione, la decisione di trattenimento del Questore di Ragusa, bacchettando nuovamente il governo, al contempo, circa le incongruenze del predetto decreto con la Costituzione ed il Diritto Comunitario.
Ancora una volta oggetto del provvedimento è il trattenimento di un tunisino richiedente protezione internazionale: il giudice Cupri ricorda che “il trattenimento di un richiedente protezione internazionale costituisce una misura coercitiva che priva tale richiedente della sua libertà di circolazione e lo isola dal resto della popolazione, imponendogli di soggiornare in modo permanente in un perimetro circoscritto e ristretto”. Si tratta, in sostanza, di una vera e propria forma di detenzione che non è tuttavia giustificata dall'avere commesso un qualche reato, laddove, invece, il trattenimento, ai sensi dell'articolo 2, lettera h), della direttiva 2013/33, rappresenta una misura di privazione della libertà personale legittimamente realizzabile «soltanto in presenza delle condizioni giustificative previste dalla legge».
Ma il giudice va anche oltre, contestando la legittimità del provvedimento di trattenimento anche sotto un altro profilo: esso non è stato emesso sul luogo di frontiera, cioè a Lampedusa, ma a Ragusa, dove il migrante è arrivato già con lo status di richiedente asilo. La norma, però, dice chiaramente che «la procedura di frontiera è tale se la domanda viene decisa direttamente “alla frontiera o nelle zone di transito dello Stato membro”», ed avendo, il migrante, manifestato la volontà di richiedere protezione a Lampedusa («nel foglio notizie è barrata la casella asilo» scrive il giudice), «ne consegue che va considerato richiedente ai sensi della direttiva 32/2013 sin dal suo ingresso alla frontiera di Lampedusa ove la sua domanda doveva essere esaminata». Aggiunge ancora il giudice che il questore di Ragusa, nel chiedere il trattenimento, ha giustificato il provvedimento spiegando che "l'elevato numero di richieste di protezione internazionale rende difficoltosa la trattazione della domanda del richiedente nel luogo di arrivo", citando la direttiva UE che stabilisce in casi eccezionali che sia possibile "accogliere i cittadini di Paesi terzi o gli apolidi anche nelle immediate vicinanze della frontiera o della zona di transito". La citazione, però, è imprecisa, rileva il giudice, poiché “la norma europea ammette le condizioni emergenziali della procedura di frontiera solo nell'impossibilità – e non nella difficoltà – di valutare le domande nel luogo di arrivo.”
L’ultimo affondo il giudice Cupri l’ha tirato sulla questione dei cinquemila euro da pagare nel caso in cui non si voglia essere trattenuti: "Come già affermato da precedenti decisioni di questo Tribunale in procedimenti di convalida di trattenimenti riguardanti cittadini tunisini e le cui motivazioni sono condivise da questo giudicante" (e qui è chiaro il riferimento al provvedimento del giudice Apostolico), la "garanzia finanziaria" richiesta non è trattata come un'opzione, bensì come un "requisito amministrativo imposto al richiedente per il solo fatto che chiede protezione internazionale". E ciò è incompatibile con l’articolo 8 della direttiva 2013/33, così come interpretato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui «il cittadino di un paese terzo interessato non può (...) essere trattenuto qualora una misura meno coercitiva possa essere efficacemente applicata». Laddove , invece, le norme italiane, scelgono la sola formula della “tassa per la libertà” di quasi 5mila euro, ignorano, evidentemente, le altre indicate dal diritto comunitario, come l’obbligo di presentarsi periodicamente alle autorità o l’obbligo di dimorare in un luogo assegnato.
Mentre scrivo, è ancora martedì: sono passati solo tre giorni dalla pronuncia del giudice Cupri. Staremo a vedere se anche il suoi cassetti e la sua vita saranno scandagliati alla ricerca di un pretesto che distolga l’attenzione dalla questione principale, che è – e resta – quella dell’ormai ricorrente abuso da parte dell’esecutivo di uno strumento legislativo - il decreto legge – formulato spesso in maniera troppo rapida ed imprecisa (altrettanto è stato per il decreto Rave e per quello Caivano) tanto da entrare facilmente in collisione, in primis, con la Costituzione.