Hikikomori: è il nome della sindrome (detta anche “dell’eremita”) che sta largamente diffondendosi tra giovani e giovanissimi, favorita, nell’ultimo anno e mezzo, dall’isolamento imposto dalla pandemia.
Trovo in rete che il termine, derivato dalla fusione dei due verbi “hiku” e “komoru” (che, in giapponese, significano “ritirarsi” e “stare in disparte”), fu coniato per la prima volta nel 1998 dallo psichiatra Tamaki Saito per descrivere tutte quelle persone che, pur in assenza di un disturbo diagnosticato, avevano deciso, in risposta a varie situazioni di malessere, di rintanarsi in casa, estraniandosi dal mondo esterno ed interrompendo i contatti con chiunque.
Il fenomeno non è rimasto però arginato dai confini nipponici ma si è progressivamente esteso in altri Paesi con tratti culturali simili a quelli del Giappone (Corea del Sud, Hong Kong) e anche in alcune nazioni europee. In Italia stime non ufficiali ne contano oltre 100mila casi.
Benché così diffuso e ormai ampiamente descritto e osservato, ad oggi questo disturbo - , sebbene richieda l’intervento di uno psichiatra o altro specialista della salute mentale, in quanto non si risolve mai spontaneamente - non è diagnosticato come malattia mentale nel DSM5 (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali redatto dall’Associazione Americana di Psichiatria e adottato in tutto il mondo).
Le sue cause possono essere molteplici, tutte perlopiù riconducibili a condizioni generatrici d’ansia.
In Giappone, in particolare, il fenomeno degli hikikomori è strettamente collegato alla forte pressione avvertita in una società che viaggia sulla linea della competizione, dove il successo deve essere ottenuto ad ogni costo e, dunque, la paura di fallire induce molto spesso alla fuga, lontano da ogni situazione che preveda un confronto sociale.
I giovani che scelgono questa via sono perlopiù provenienti da famiglie benestanti e con alti gradi di istruzione, dove la continuità è legge e, dunque, ai figli spetta il passaggio d’un testimone impegnativo che devono essere in grado di sostenere raggiungendo gli stessi risultati dei genitori e rispondendo alle loro aspettative.
Più in generale, tuttavia, le cause che possono portare al “ritiro dalla socialità” sono diverse: situazioni familiari difficili, atti di bullismo subiti in passato, sfiducia nei confronti delle dinamiche e delle relazioni sociali, rifiuto della scuola, senso di inadeguatezza, incomprensioni, condizioni che – com’è noto – si configurano ormai come tratti comuni e ampiamente diffusi nella società moderna.
Le mura di casa diventano allora la fortezza dentro cui ci si ritira; il ritmo sonno-veglia viene completamente invertito; ogni forma di comunicazione con i membri della famiglia viene interrotta e il tempo scorre davanti allo schermo d’un pc.
Proprio a causa di quest’ultima tendenza, spesso il fenomeno è stato confuso o sovrapposto alla dipendenza da internet, che invece non è quasi mai la causa scatenante del ritiro sociale, ma può diventarne una conseguenza.
Le restrizioni sociali imposte dalla pandemia, la DAD, il distanziamento hanno peraltro creato le condizioni ideali al proliferare del fenomeno - un’”infezione” a sua volta dilagata -, determinando tuttavia anche il paradosso di legittimare, in un certo senso, la condotta scelta dagli “eremiti sociali”, cui è stato fornito l’alibi adatto a confermare la convinzione che la scelta dell’isolamento sia un rimedio e non una condanna. La quarantena ha finito, insomma, per trasformarsi in un piacere, persino condiviso.
E in questa trappola ci sono cascati un po’ tutti, alla fine. Gli hikikomori sono stati “sdoganati”, ottenendo per il tramite della pandemia una sorta di passaporto immunitario che sembra difenderli dal “pericolo della guarigione”.
Può porsi in tale contesto la notizia (che mi ha fornito lo spunto per affrontare questa tematica) riportata dai quotidiani pochi giorni fa relativa ad una decisione del Consiglio di Stato che, ribaltando una precedente sentenza del TAR Lombardia, ha consentito ad un tredicenne di Brescia, bocciato all’esame di terza media (che, peraltro, aveva potuto sostenere solo dopo ricorso al TAR avverso la decisione della scuola di non ammetterlo alla prova a causa delle numerose assenze collezionate durante il periodo della DAD) di poterlo ripetere.
Secondo il Consiglio di Stato, infatti, "non risulta che l’esame orale, in coerenza con quanto prescritto dal piano didattico personalizzato, si sia svolto con modalità tali da tenere nella debita considerazione la situazione particolare di bisogno dell’alunno, che attiene proprio al confronto diretto nello svolgimento dell’esame orale". In estrema sintesi, aderendo alla richiesta dei genitori ricorrenti, il Consiglio di Stato avrebbe riconosciuto che l’atteggiamento che ha determinato la bocciatura del ragazzo sarebbe stato erroneamente interpretato come svogliatezza quando invece, nella realtà, egli è affetto da "fobia sociale legata al mondo scolastico, inteso come luogo di giudizio da parte degli insegnanti". Ha dunque diritto a sostenere nuovamente la prova che dovrà perciò essere opportunamente calibrata, "mediante adozione di misure specifiche, che tengano conto del particolare bisogno educativo speciale" del ragazzo.
Da insegnante, se da un lato posso apprezzare la sensibilità dimostrata dal supremo organo di giustizia amministrativa nello scendere in una valutazione che tiene conto di aspetti psicologici e personali anziché solo tecnici, dall’altra non posso tuttavia restare perplessa di fronte al peso dato ad una condizione che, sebbene di non discutibile gravità, rischia tuttavia di diventare l’ennesimo, abusato lasciapassare cui sempre più frequentemente tante famiglie ricorrono per rattoppare il manchevole profitto scolastico dei loro figli e ribaltare risultati altrimenti compromessi, sgravandosi in tal modo la coscienza dalla responsabilità delle proprie mancanze, in primis il difetto di presenza e di adeguate attenzioni che molto spesso sono la causa scatenante dei disturbi e delle condotte giovanili borderline.
Comprensione sì, ma prudenza pure.