In tanti lo davano per chiuso, terminato, esaurito, andato: il periodo delle Grandi Dimissioni, le Great Resignation, fenomeno paradossale iniziato nel 2021 come costola del Covid, nel giro di qualche anno appena sembrava evaporato. Forse perché oggi trovare lavoro non è affatto semplice, o forse perché mollare un posto senza alcuna certezza, immaginando di vivere d’aria e sogni, smette di piacere in prossimità dei pasti.
Ma a sorpresa, secondo i numeri della banca dati Inps, la faccenda è tutt’altro che chiusa: nei primi 9 mesi del 2024, l’istituto ha registrato 1,5 milioni di dimissioni volontarie, lasciando immaginare che, quando i calcoli dell’anno saranno chiusi, si arriverà serenamente a sfiorare quota due milioni. Che poi significa replicare la cifra con cui si era chiuso il 2022 e, a ruota, il 2023.
Ben più complicato è capire a fondo i motivi del fenomeno, che ai tempi del Covid era più figlio (soprattutto negli Stati Uniti) del rifiuto da parte dello Stato di fornire ai lavoratori protezioni dagli effetti della pandemia. Adesso, il popolo di esuli che dice basta al lavoro arriva alla decisione dopo anni di insoddisfazioni in cui magri stipendi non bastano a giustificare dosi massicce di stress, carichi di lavoro eccessivi e un totale disinteresse nella valorizzazione delle professionalità, come nella crescita del dipendente.
Dalla documentazione allegata alle dimissioni emerge una forte componente legata al disagio psicologico, con un picco di oltre 9mila denunce (il 16% in più rispetto all’anno precedente) per problemi al sistema nervoso e disturbi psichici e comportamentali.
Ad andarsene di più, racconta l’Inps, sono medici, infermieri, agenti di polizia locale, autisti di autobus, insegnanti e poliziotti. In una sola definizione: i dipendenti pubblici. Quella fetta d’Italia che ha creduto nel “posto fisso”, reso celebre da Checco Zalone come vera e unica ambizione lavorativa, è stata ridotta di 102mila unità fra settori come difesa, istruzione, sanità e assistenza sociale.
Circa 7mila medici e 23mila infermieri hanno lasciato le corsie degli ospedali - spinti da carichi di lavoro, responsabilità crescenti e scarse soddisfazioni economiche - per trovare nuovi sbocchi professionali in strutture private di Paesi stranieri, ma senza dimenticare il 20% a cui non basta neanche quello e, nauseato dall’esperienza, abbandona per sempre il settore.
Accanto a loro, circa 600mila addetti impegnati nel settore del commercio, dove gli orari sono massacranti e gli stipendi desolanti: dal trasporto al magazzinaggio, dai servizi alberghieri alla ristorazione. Ma non mancano neanche quasi 300mila addetti fra manufatturiero, rifiuti ed energia, più quasi altrettanti lavoratori in attività professionali, scientifiche e tecniche.
Una situazione che mette a rischio la richiesta fatta a Unioncamere/Ministero del Lavoro dalle aziende italiane, pronte ad assumere nei prossimi tre mesi circa 1,37 milioni di lavoratori, di cui circa 380mila a tempo indeterminato.
Secondo gli analisti dell’Ufficio Studi della Cgia, un vero paradosso: “In un caso su due, sussiste il rischio di non poter procedere alle assunzioni a causa della carenza di candidati o dell'impreparazione delle persone che si presentano ai colloqui. Pertanto, a fronte di 120mila lavoratori che potrebbero perdere il posto per via delle crisi aziendali in atto, nei primi tre mesi di quest’anno le imprese non sarebbero nelle condizioni di coprire, nemmeno offrendo un posto fisso, almeno 190mila posizioni lavorative. Con un costante decremento della popolazione giovanile e un incremento significativo della fascia più anziana, gli imprenditori manifestano una crescente preoccupazione per la mancanza di personale, che è decisamente superiore ai possibili effetti di una nuova crisi che, tuttavia, si sta diffondendo in buona parte dell'UE”.